sabato 12 dicembre 2009

Gli Ebrei: L’eredità spirituale

Shem, padre di tutti i figli di Ever...” Bereshyit 10:21

In Genesi 10:21 è scritto “Shem, padre di tutti i figli di Eber” – o più correttamente, “Ever”, secondo la pronuncia ebraica. Cosa significa questo? Perché Ever, il quinto di undici patriarchi da Noach ad Avraham, è nominato in modo specifico come il capostipite di una discendenza che crediamo inizia solo sei generazioni dopo? Ever è infatti il progenitore di molti popoli e la sua discendenza si divide in due rami separati, e da solo uno di questi discende poi Avraham, il “padre degli Ebrei”, mentre dall’altro provengono invece dei popoli che con il tempo divennero parte delle etnie comunemente conosciute come popoli Arabi, quindi, non più Ebrei. La genealogia compresa da undici generazioni da Noach ad Avraham è come segue: Noach, Shem, Arpakshad, Shelach, Ever, Peleg, Re’u, Serug, Nachor, Terach, Avraham, che è considerato il padre di tutti gli Ebrei, nonché di altre nazioni. In realtà, il popolo universalmente riconosciuto come Ebrei iniziò ad esistere addirittura due generazioni dopo di lui, cioè, da Yakov, figlio di Yitzhak, figlio di Avraham. Cosa significa dunque l’affermazione di Genesi 10:21? Era Avraham un Ebreo, essendo egli stesso il progenitore degli Ebrei? In Genesi 14:13 leggiamo: “Avraham, l’Ebreo” – quindi, Avraham, il progenitore degli Ebrei, era già un Ebreo! Infatti, documenti storici dell’epoca di Avraham parlano di un popolo o gruppo di popoli dispersi tra l’Egitto e la Mesopotamia denominati “Ebrei”, “Apiru”, “Habiri”, un popolo senza un territorio definito, abitante nelle principali città del Medio Oriente, spesso in Egitto per commerciare oppure per stabilirvisi... proprio come Avraham. Da ciò si deduce che gli Ebrei in origine non erano soltanto i discendenti di Israele, ma anche un’infinità di popoli, inclusi molti dei nemici di Israele, quali Ammon e Moav.

Alcuni studiosi speculano affermando che gli Israeliti originalmente non parlavano ebraico, ma che adottarono questa lingua dai Cananei quando vi si stabilirono in Terra di Israele. Tuttavia, il peso delle evidenze è contrario a tale teoria; sono stati piuttosto i Cananei che presero la loro lingua dagli Aramei – infatti, l’aramaico era la lingua franca non solo tra i popoli Semitici, ma anche fra gli altri. Gli Ebrei erano in origine una tribù Akkadica, la cui lingua era senz’altro strettamente vicina al moderno ebraico. D’altronde, la Bibbia è stata scritta in ebraico, ed è probabilmente il documento più antico di cui abbiamo notizie certe.
Ritornando al quesito sull’ebraicità di Avraham, la storia ci da una spiegazione: Dei monumenti egizi fanno menzione di un popolo enigmatico: gli
“Apiru”. In uno di questi è incisa sul muro una scena raffigurando uomini lavorando al torchio del vino. Sotto l’immagine è scritto: “Apiru adibiti alla lavorazione del vino”. La data del monumento è attribuita al periodo della regina Hatshepshut e di Tutmose III, circa l’anno 2290 (1470 b.c.e.). Gli studiosi riconobbero la somiglianza fra i termini “Apiru” ed “Ebrei”, in una scena che rappresenta il lavoro compiuto da sudditi che può accostarsi a quelle descritte nel Libro dell’Esodo riguardante il lavoro degli Ebrei in Egitto.

Nel Papyrus Leiden, datato nel regno di Ramses II, circa l’anno 2510 (1250 b.c.e.), si legge la seguente frase in una lettera: “Consegna del grano agli uomini dell’esercito e agli Apiru che portano la pietra per la costruzione del grande pilone di Ramses II”. Ancora una volta vediamo gli Apiru in schiavitù in Egitto ai tempi di Ramses II, utilizzati per le grandi opere edilizie.

I riferimenti agli Apiru nei documenti e monumenti egizi segnalano la loro presenza e la loro importanza sociale per più di tre secoli. Questa stessa gente è menzionata altrove come “Habiru” o “Habiri”.

Er-Heba, governatore egizio di Yerushalaym, scrisse una serie di lettere al Faraone, in cui si lamentava degli “Habiru”, i quali saccheggiavano le terre del re. Er-Heba voleva sapere perché il re li lasciava agire in questo modo, senza mandare arcieri per proteggere i suoi propri domini, perché se egli non inviava con urgenza l’esercito, tutta la terra sarebbe caduta sotto gli Habiru.

Questi eventi sembrano coincidere con quelli descritti nel Libro di Yehoshua (Giosué), il che collocherebbe l’Esodo prima del quattordicesimo secolo b.c.e., in accordo con la datazione più accettata.

Molti studiosi si sono interessati sulle incursioni degli Habiri in Canaan meridionale; i quali tendono a sostenere che la presenza degli Israeliti in quella zona avvenne più tardi. Tuttavia, nei capitoli 10 al 12 del Libro di Yehoshua è descritta precisamente la conquista di quella regione, menzionando gli stessi nomi riportati nelle tavolette di Amarna, inclusi Lachish, Gezer, Gath, ed il re di Yerushalaym. In una delle tavolette si può leggere come era la situazione: “Guardate ciò che Milkilu e Shuwardata hanno fatto alla terra del re mio signore! Essi hanno truppe di Gezer, truppe di Gath, e truppe di Qeila. Essi hanno preso la terra di Rubute. La terra del re è caduta in mano degli Habiri. Adesso, anche una città del distretto di Urusalim (Yerushalaym), chiamata Bit-nin’ib, una città del re, è passata dalla parte del popolo di Qeila. Ascolti il re il suo servo Er-Heba, e mandi un esercito di arcieri che possa riprendere la terra del re. Perché senza un esercito di arcieri, la terra del re passerà in mano agli Habiri.”.

L’identificazione dei gruppi denominati Habiri e le loro attività corrispondono esattamente con la conquista di Canaan descritta nel Libro di Yehoshua. Le lettere di Amarna indicano che questa categoria di persone (gli Habiri) aveva uno status particolare nel Medio Oriente. Tutti questi documenti portano ad identificarli con gli Israeliti.

Gli Apiru sono ovviamente un popolo riconoscibile, distinto da altri. Se erano Ebrei, non necessariamente erano tutti discendenti dalle dodici Tribù (ovvero, le tredici Tribù), e poteva includere altri gruppi Semitici (probabilmente proprio gli Hyksos che avevano dominato l’Egitto) – Infatti, non solo i figli d’Israele uscirono con Mosheh, ma tutti coloro che si unirono a loro nell’Esodo divennero di fatto parte del popolo d’Israele (Esodo 12:38) e quindi, partecipi della sua eredità spirituale.

L’arco di tempo in cui si menzionano gli Apiru copre un ampio periodo che s’estende anche oltre l’Esodo. Infatti, non tutti loro lasciarono l’Egitto, ma alcuni vi rimasero. Ciò significa che non tutti i Semiti si unirono agli Israeliti, anche se molti di essi decisero di farlo.

Anche se gli Habiru non sembrano essere definiti come un’entità etnica vera e propria, e non hanno neanche una collocazione geografica, sono considerati con particolare riguardo. La menzione degli Habiri in Siria, Fenicia e Canaan suggerisce l’idea che tale termine fosse usato in genere in riferimento alle tribù Semitiche nomadi di quell’area, conosciuti anche come “Aramei erranti” . Essa descrive un ceppo Semitico particolare il quale, secondo il periodo storico, si è diviso in numerose tribù e gruppi etnici diversificati ed identificabili.

I riferimenti più antichi riguardanti gli Habiru provengono dal Sumer e datano dalla Terza Dinastia di Ur, circa l’anno 1760 (2000 b.c.e.). Una caratteristica di questo periodo fu l’espansione dei popoli Semitici, principalmente i gruppi di lingua Akkadica (Assiri, Ebrei, Aramei). In coincidenza con questo afflusso di Semiti, il termine “Habiru/Habiri” incomincia a comparire nei documenti sumeri. Questi li presentano come un elemento nuovo nella società, il cui status legale era difficile di definire – come dire, erano i Gitani dell’epoca.

I documenti sumeri riportano che gli Habiri erano attivi in diverse funzioni sociali, nello stesso modo che gli Israeliti lo erano in Egitto e poi anche nella corte di Nabucodonosor.
Gli scavi di Kultepe ed Alishar in Anatolia portarono alla scoperta di un importante numero di lettere e testi legali, appartenenti a stazioni commerciali degli Assiri nel periodo Akkadico. Fra questi documenti c’è una lettera da un mercante Assiro ad un altro, richiedendo il rilascio di certi Habiri che si trovavano detenuti nel palazzo di Shalahshuwe, non meglio identificato, probabilmente a nord di Alishar. Questa regione è vicina alla residenza della famiglia di Avraham dopo aver lasciato Ur. Da questo antico documento emerge la conclusione che gli Habiri si trovavano già in Anatolia centrale e dimostra l’ampia dispersione di questo popolo prima dei tempi di Avraham. Si rammenta il destinatario di questa lettera che in caso che egli non potesse affrontare il costo della missione, che gli Habiri hanno comunque molto denaro e possono pagare per il proprio rilascio. In ogni caso, l’autore della lettera vuole assicurasi che siano liberati. Egli li tiene in grande stima.

Un regno Amorita dominava la Mesopotamia ai tempi di Avraham, da Babilonia ed Haran fino alle sponde del Mediterraneo (proprio le terre che Avraham percorse da Ur dei Caldei ad Haran e poi Canaan). Questo periodo segnò l’età d’oro della città di Mari, che comprendeva alcuni stati minori tra i quali compaiono alcuni governanti Habiri. Uno dei documenti riporta che Yapah Adad costruì la città di Zallul sulle rive dell’Eufrate e, con 2000 soldati Habiri, vi si stabilì. In un altro documento, Izinabu, un capo Yamubalita, aveva a carico 30 Habiru. In un’altra lettera in cui l’identità del mittente e del destinatario si è persa, parla di “3000 asini degli Habiri” (Notare l’importanza dell’uso degli asini da parte delle tribù Ebraiche secondo la Bibbia). In altre lettere gli Habiru durante la notte presero la città di Yahmumam e saccheggiarono Luhaya prendendo 500 pecore e 10 uomini. Gli Habiri erano quindi una parte riconoscibile della popolazione.

Gli Habiru sono nominati pure in molti documenti del regno Hurrita di Nuzi, dove erano un componente importante della società. E’ particolarmente interessante il fatto che i popoli antichi attribuivano agli Habiru una misteriosa relazione con la Divinità. In documenti degli Hittiti si trovano lunghe liste di dèi invocati per proteggere i trattati, che includono molte divinità di diversi paesi e popoli. In un trattato con l’Egitto, si trova una curiosa invocazione che conclude l’elenco degli dèi nominati: “e gli Dèi degli Habiri...”. E’ significativo il fatto che gli Elohim Hapiru/Habiri sono nominati come distinti dagli altri, e benché non sono identificati per Nome, non possono essere dimenticati.

La stessa particolarità è stata trovata in templi assiri, in cui gli Habiru sono menzionati in mezzo alle deità. Una tale menzione degli Habiru nell’elenco degli dèi indica esplicitamente che erano considerati d’origine divina. Erano diversi dalla gente comune, compresi regnanti e magistrati. In vari testi assiri di presagi astrologici si parla degli Habiri in associazione con nefasti fenomeni celesti e sconosciute sciagure. Si credeva infatti che avessero dei poteri divini.

Anche in Egitto il nome Apir compare in diversi testi associato a dei nomi divini; intendendo appunto delle deità degli Apiru. Dall’Anatolia alla Mesopotamia all’Egitto, gli Habiri erano considerati con speciale riguardo in quanto al loro status sociale e religioso. In base alle evidenze storiche, l’associazione degli Habiri con la divinità non può essere trascurata. Anche se l’esatto significato di questi riferimenti non è completamente conosciuto, non sarebbe stato possibile per le persone che vivevano, lavoravano, viaggiavano e commerciavano con gli Habiri ignorare il loro rapporto con la Divinità. Questo fatto doveva essere presente nella mente di tutti, universalmente riconosciuto ed accettato. Erano di una stirpe particolare, un “Popolo Eletto”.

Il risultato di questa ricerca ci porta alle seguenti conclusioni:

Gli Habiri esistevano già in tempi remoti, e sono presenti nei documenti più antichi giunti alla nostra conoscenza, secoli prima di Avraham. Erano dispersi in tutto il Medio Oriente, dall’Egitto alla Mesopotamia, alle estremità dell’Assiria, lungo le coste del Mediterraneo attraverso Canaan, e nelle regioni dell’Anatolia. Non erano limitati ad alcun’area geografica, nazione o categoria sociale; sono presenti in ogni livello della società, in diverse attività. Solitamente viaggiavano da un paese ad altro. Gli spostamenti di Terah, Avraham, ed altri membri di quella famiglia erano coerenti con le abitudini del popolo Habiri. Per questo motivo i Sumeri cercavano di definire il loro ruolo nella società (apparentemente senza riuscirci). Erano veramente degli “Aramei erranti”, anche se la loro origine è Akkadia/Assira, essendo discendenti di Arphakshad e non di Aram. Tuttavia, questi “Aramei erranti” sono stati il mezzo per cui ci è stata trasmessa la memoria linguistica dell’antico mondo semitico. Hanno sicuramente svolto un ruolo fondamentale nel ricollegarci con la storia più remota dell’umanità. Essi hanno anche portato una linea genetica dai tempi storici, con Avraham scelto come rappresentante della stirpe benedetta.

Gli Habiru avevano una Deità il cui Nome era sconosciuto agli altri popoli e ad essi stessi, perché il Nome non fu rivelato a nessuno prima di Mosheh Rabainu. Il fatto che il Nome della loro Divinità era sconosciuto costituisce un’altra prova per identificarli con “i figli di Ever”.

Le evidenze documentate dimostrano che erano socialmente flessibili ed estremamente versatili, e che erano trattati con riguardo. Gli Habiri non avevano un posto fisso nell’ordinamento sociale della comunità dove vivevano; erano accettati come degli stranieri, non come parte del popolo.

I “figli di Ever” erano molti popoli. Ever era padre di tutti i Yoqtaniti, ma l’eredità spirituale “Habiru” fu trasmessa a suo figlio Peleg, da cui provennero Avraham e i suoi fratelli. Avraham procurò a suo figlio Yitzhak una moglie appartenente alla sua stessa famiglia, mentre Yishmael sposò una Egizia e la tradizione Habiru non proseguì attraverso di lui. Gli altri figli di Avraham, che egli ebbe da Qeturah, sembrano aver solo parzialmente continuato la linea abrahamica, cioè, alcuni dei Madianiti (i Qenei, dei quali era Yethro, suocero di Mosheh Rabainu) ed alcuni Yoqshaniti (gli Asshurim, Lethushim e Le’ummim) continuarono ad essere Habiru. Yitzhak seguì l’esempio di suo padre e mandò a prendere come moglie per suo figlio Ya’kov una figlia di Betuel, suo cognato.

Quando il termine “Habiru” scompare dai documenti antichi, inizia a presentarsi il nome “Ivri” (Ebrei), ma con connotazioni molto più ristrette, cioè, solo in riferimento agli Israeliti. Apparentemente gli Habiru persero la loro particolare identità. Essendosi assimilati tramite matrimoni misti con gli altri popoli, non erano più identificabili. Gli Ebrei cercarono di preservare la linea genetica, conservando la distinzione come Habiri. Della forza di una tale consapevolezza sono testimoni oggi i Giudei che credono nell’adempimento delle promesse bibliche e riaffermano il diritto al possesso della terra di Avraham.

Le Tribù Ebree erano Habiru, ma non tutti gli Habiru erano Ebrei. Gli Israeliti provennero da quel popolo speciale, acquisendo il nome “Ivri”. L’affermazione in Bereshyit che “Shem è il padre di tutti i figli di Ever” adesso ha un significato diverso. Gli Ebrei/Habiri erano i figli di Ever, come linea genetica riportata dagli scribi. Questa breve rassegna ci da un panorama concernente l’origine del popolo Ebreo, i Figli di Israele, dandoci una chiave per comprendere l’elezione di Avraham, l’ “Habiru” come il “Padre di molte nazioni”. Possiamo quindi capire come Avraham era sia un Ebreo (Habiru), sia il padre degli Ebrei (Israeliti).

Gli Israeliti non chiamavano sé stessi “Ivri” (Ebrei), ma erano denominati così dagli gli altri popoli, che con quel termine riconoscevano la loro origine etnica. Gli Ebrei si identificavano come “Bney Yisrael”, Figli di Israele. Tutti gli altri “Ebrei” sono per loro come qualsiasi altro popolo, cioè “Goyim”, “gentili”. Gli Ismaeliti, i Madianiti, gli Edomiti, etc. erano e sono gentili, malgrado la loro origine comune con gli Israeliti.

Tuttavia, in Egitto qualcosa è cambiato: Ai discendenti naturali di Yakov si aggiunsero altri popoli, probabilmente Semitici (ma non necessariamente), i quali uscirono dall’Egitto nell’Esodo, e quindi divennero Israeliti. Infatti, nella celebrazione della Pesach era stabilito sin dall’inizio che gli stranieri che abitano in mezzo al popolo, se sono circoncisi, ovvero, aderenti al Patto Abrahamico, -“Gerim”- ne devono essere partecipi (Esodo 12:48-49). Questi Gerim erano presenti nel Sinai e ricevettero la Torah: da quel momento, essi divennero a tutti gli effetti “Figli di Israele”. Questa è la conclusione della prima fase di costituzione dell’identità ebraica/israelitica: Dall’originale massa di popoli Ebrei, ai quali apparteneva lo stesso Avraham, si riduce ai soli discendenti di Yakov, e di essi soltanto a coloro che parteciparono nell’Esodo – se ci sono stati dei suoi discendenti che invece rimasero in Egitto, o sono andati altrove, essi non sono più considerati Ebrei. L’identità ebraica è quindi determinata da due componenti: una linea genetica ed un’eredità spirituale. Nel principio, la continuità genetica era fondamentale – riservata esclusivamente all’etnia di Avraham, essendo il matrimonio misto un fattore determinante per l’esclusione. Da Yakov in poi, l’ebraicità passò ad essere fondamentalmente una successione in cui il carattere spirituale divenne prevalente, accostato ad una continuità genetica non più esclusiva, anzi, l’essere Ebreo, cioè, Israelita, fu determinato dall’aver ricevuto la Torah, sia per i discendenti naturali di Israele che per coloro che non lo erano. Questo concetto di adozione ha inizio nella propria famiglia di Yakov. Dal punto di vista puramente genetico, Efrayim e Menasheh, figli di Yosef, erano esattamente uguali a Yishmael: padre Ebreo e madre Egizia (Avraham-Hagar/Yosef-Asenat). Infatti, Efrayim e Menasheh sono stati “Arabi” come Ismaele, fino a quando Yakov li adottò come figli propri. Solo allora essi divennero Ebrei (Genesi 48:5).

Lo schema genealogico sopra illustra l’aspetto determinante dell’eredità spirituale nella formazione del popolo di Israele, prevalente su quello puramente etnico.

Quindi, l’essere Ebreo richiede innanzitutto l’adesione a due Patti: quello Abrahamico (la circoncisione) e quello Mosaico (la Torah); chiunque soddisfa questi requisiti, può essere considerato legittimamente un Ebreo, ovvero, un Israelita. Il fondamento dell’identità ebraica si stabilisce in forma definitiva quando la Torah scritta è ricevuta dal popolo radunato nel Sinai, cioè i discendenti di Yakov ed i Gerim circoncisi, tutti i quali si identificano come il popolo di Israele, e nell’appartenenza ad una delle sue tredici Tribù (dodici nelle quali i Gerim potevano essere inclusi, più i Leviti, i quali devono conservare la successione genetica perché adibiti alle funzioni di culto).

In principio, tutti gli Israeliti erano tali in virtù dell’osservanza di questi requisiti, ma dei fatti storici successivi determinarono che la prerogativa d’essere Ebrei fosse ridotta a solo una parte di questo popolo. Infatti, dopo alcuni secoli, il termine “Ebreo” o “Israelita” divenne sinonimo di “Giudeo”. Questo è risultato dell’importanza fondamentale del fattore spirituale come determinante dell’eredità ebraica.

In terra di Canaan si svolge la seconda fase della storia spirituale del popolo Ebreo.
Qui, una delle Tribù si dimostra più intraprendente delle altre, più efficiente nella conquista della propria terra, e con il tempo anche più fedele alla Torah: la Tribù di Yehudah.
Anche se la purezza etnica non era più un fattore determinante come nei tempi di Avraham, era tuttavia sconsigliato agli Israeliti contrarre matrimonio con coloro che non appartenevano al popolo, cioè, quelli che non riconoscevano la Torah, perché questo avrebbe portato i loro discendenti a dimenticare il Patto Mosaico e di conseguenza a perdere l’eredità spirituale ebraica.

Una volta stabilitisi in Canaan, solo la Tribù di Yehudah occupò completamente il suo territorio, tutte le altre convissero insieme ai Cananei, e non li cacciarono com’era stato loro comandato. Nel libro dei Giudici, infatti, Yehudah non è coinvolta nell’alternarsi di periodi di indipendenza e di dominazione straniera, e sembra aver goduto di stabilità. Ad esempio, nel cantico di Devorah, che elogia le Tribù che hanno partecipato alla guerra di liberazione e rimprovera quelle che invece non ne hanno preso parte, non nomina Yehudah. L’assenza di Yehudah come protagonista nel periodo dei Giudici sta ad indicare che era già di fatto un’entità politica definita. Si fu così delineando una divisione all’interno della nazione Ebrea in due popoli, che in termini biblici si definiscono come “Casa di Israele” e “Casa di Yehudah”, denominazioni che trascendono le appartenenze tribali e si riferiscono piuttosto a delle realtà spirituali. Le differenze e rivalità fra queste due entità portò alla secessione post-salomonica del Regno di Israele.
Infatti, fu l’unificazione degli Israeliti in un solo Regno il fatto eccezionale, e non la susseguente divisione, perché l’esistenza delle due Case era già evidente quando Shaul fu eletto il primo re. La costituzione di tutte le Tribù in un unico regno presupponeva il consolidamento dell’unità nazionale, ma esaminando i seguenti versi delle Scritture, possiamo capire che la Casa di Israele e la Casa di Yehudah erano già entità definite ed erano considerate come due popoli:

Shaul li passò in rassegna a Bezeq: i figli d’Israele erano trecentomila e gli uomini di Yehudah trentamila.” – 1Samuele 11:8
Allora gli uomini d’Israele e di Yehudah si alzarono, lanciarono il grido di guerra, e inseguirono i Filistei fino all’ingresso di Gat e alle porte di Ekron. I Filistei feriti a morte caddero sulla via di Shaarayim, fino a Gat e fino ad Ekron.” – 1Samuele 17:52
Ma tutto Israele e Yehudah amavano David, perché andava e veniva alla loro testa.” – 1Samuele 18:16

Shaul, il primo re d’Israele, della Tribù di Binyamin (scelto non a caso da questa, la più piccola ed il cui territorio era in mezzo a Yehudah ed Efrayim, le due Tribù prevalenti), contava gli uomini di Yehudah separatamente da quelli d’Israele, come un corpo “alleato” del suo esercito. Dopo di lui fu scelto re David, che essendo della tribù di Yehudah, non fu confermato dal resto d’Israele sino dopo sette anni e mezzo, quando gli anziani d’Israele “fecero alleanza” con lui (2Shmuel 5:1-4).

Ishboshet, figlio di Shaul, aveva quarant’anni quando fu fatto re d’Israele, e regnò due anni. Ma la Casa di Yehudah seguì David. David regnò a Hevron nella Casa di Yehudah per sette anni e sei mesi.” – 2Samuele 2:10-11
Trasferendo il regno della casa di Shaul alla sua, stabilendo il trono di David sopra Israele e sopra Yehudah, da Dan, fino a Beer-Sheva.” – 2Samuele 3:10
Così tutti gli anziani d’Israele vennero dal re a Hevron e il re David fece alleanza con loro a Hevron in presenza di HaShem; ed essi unsero David come re d’Israele.” – 2Samuele 5:3
Da Hevron regnò su Yehudah sette anni e sei mesi e da Yerushalaym regnò trentatre anni su tutto Israele e Yehudah.” – 2Samuele 5:5

Anche durante il regno di David, saldamente unificato, le due Case rimangono distinte e sono nominate insieme quando si fa riferimento all’intera nazione:

Uriyah rispose a David: «L’Arca, Israele e Yehudah stanno sotto le tende, Yoav mio signore e i suoi servi sono accampati in aperta campagna e io entrerei in casa mia per mangiare, bere e per coricarmi con mia moglie? Com’è vero che HaShem vive e che anche tu vivi, io non farò questo!»” – 2Samuele 11:11

Un altro elemento altamente significativo era la presenza dell’Arca dell’Alleanza, in quanto simbolo concreto del Patto stabilito in Sinai. La sua collocazione nel Tempio sarà determinante per il destino delle due Case, come vedremo più avanti. Infatti, è interessante notare che la Casa di Israele all’inizio conservò la sua fedeltà a Elohim dovuto al fatto che l’Arca dell’Alleanza dimorava in territorio di Efrayim:

Shaul disse ad Ahiyah: «Fa’ accostare l’Arca di Elohim!» - Infatti l’Arca di Elohim era allora con i figli d’Israele.” – 1Samuele 14:18

L’autore scrive nel tempo in cui l’Arca era stata definitivamente collocata nel Tempio a Yerushalaym, quindi, nella nuova capitale di Yehudah, e specifica che allora (nei tempi dei Giudici e dei re Shaul e David), era presso “i figli d’Israele”.

Ritorniamo ancora al periodo in cui tutto Israele era costituito in un unico Regno: David conquistò Yerushalaym (che era in territorio di Binyamin) e la scelse come capitale del Regno di Israele, seguendo la strategia politica di non collocare il centro del potere in Yehudah per poter mantenere l’unità di tutte le Tribù. Poi pianificò di costruirvi il Tempio, opera che affidò a suo figlio e successore nel trono, Shlomoh (Salomone). Il Tempio fu costruito a Yerushalaym, e vi fu posta l’Arca dell’Alleanza.

A questo punto, si aggiunge un elemento che completa questa seconda fase di formazione dell’identità ebraica: la fedeltà al Patto Davidico, o tradotta in termini pratici, a Yerushalaym e al Tempio. Questo elemento è fondamentale per poter distinguere la vera natura della Casa di Israele e della Casa di Yehudah, trattandosi di un’eredità spirituale piuttosto che dell’appartenenza tribale.
Alla morte di Salomone, la Casa di Israele -rappresentata territorialmente da dieci Tribù- si costituì in regno indipendente. Come è già stato riferito prima, la divisione del Regno non è l’origine della differenza tra le due Case, bensì la conseguenza. Yerushalaym ed il Tempio, elementi fondamentali per l’identità ebraica, si trovavano nel Regno di Yehudah. Il Regno di Israele rimase quindi privo di questi fattori essenziali che permettevano al proprio popolo di “continuare ad essere Ebrei”. Tuttavia, non era vietato ai suoi abitanti di continuare a celebrare il culto ed osservare il Patto, né di salire a Yerushalaym ed adorare nel Tempio. Fu piuttosto una scelta politica del primo re secessionista, quella di rifiutare Yerushalaym ed il Tempio, e di crearsi una “nuova identità”. Così Yarov’am decise di “riformare” il culto ebraico, precisamente perché l’Arca non era più presso “i figli d’Israele” ma in territorio di Yehudah, e temeva che il popolo andasse a Yerushalaym e quindi ritornasse sotto i re di Yehudah (1Re 12:26-28).
Questa scelta di Yarov’am generò uno spostamento di popolazione, perchè gli abitanti del Regno di Israele che vollero rimanere fedeli a Yerushalaym e al Tempio, e quasi tutti i Leviti, dovettero trasferirsi al Regno di Yehudah. In questo modo, la Casa di Yehudah conta con rappresentanti di tutte le Tribù di Israele, “Giudei” in quanto fedeli alla Torah, al Tempio ed a Yerushalaym, e non necessariamente perché siano della Tribù di Yehudah.
Durante un periodo diversi Profeti, tra cui Eliyahu ed Elisha, cercarono di riportare il popolo del Regno di Israele alla Torah, ma alla fine il regno cadde in mano agli Assiri, che ne deportarono la popolazione in territori lontani, verso l’oriente dell’Impero Assiro. Il Regno di Israele scomparve per sempre dalla storia. Tuttavia, la fine del Regno d’Israele non implica quella della Casa di Israele. Questo evento è anche l’origine del mito delle
“Tribù Perdute”, ma non è esatto identificare le Case su una base puramente tribale, perché molti appartenenti alle Tribù del Nord si stabilirono nel Regno di Yehudah per rimanere fedeli alla Torah ed al Tempio – altri d’Israele abitavano già in territorio di Yehudah (1Re 12:17; 1Cronache 9:3); altri si rifugiarono in Yehudah dopo la prima deportazione sotto Tiglatpileser III quando la caduta definitiva di Samaria era imminente. Infatti, nel tempo dei re Hizqiyahu (Ezechia) e Yoshiyahu (Giosia), dopo la deportazione della Casa di Israele in Assiria, si parla della presenza di tutte le Tribù nel Regno di Yehudah – 2Cronache cap. 30, 31 e 34. Anche la Tribù di Binyamin fu “annessa” a Yehudah, e fa parte della Casa di Yehudah. I Leviti rimangono come Tribù sacerdotale nel seno della Casa di Yehudah.

Centovent’anni dopo, anche il Regno di Yehudah cadde in mano ai Babilonesi, la sua capitale Yerushalaym ed il Tempio sono stati distrutti, e la sua popolazione deportata in Babilonia. Tuttavia, rimase nel popolo la speranza del ritorno e la fedeltà al Patto Davidico nell’aspettazione di ricostruire la città ed il Tempio. Quando entrambi i popoli erano in esilio, ancora un Profeta di Yehudah, Yehezkel, fu inviato agli esuli della Casa di Israele in Assiria. Durante l’esilio, i discendenti dei deportati dell’ex-Regno di Israele e gli esuli del Regno di Yehudah erano ritenuti lo stesso popolo dai re Persiani, che succedettero ai Babilonesi nel governo dell’Impero; esuli ereditati dagli Assiro-Caldei. Il primo re Persiano, Koresh (Ciro), concesse a tutti coloro che volessero di ritornare nella loro terra e ricostruire Yerushalaym. L’invito non riguardava esclusivamente gli ultimi arrivati, cioè, quelli dell’ex-Regno di Yehudah, ma tutti. Nondimeno, questo ritorno implicava la restaurazione non di due stati, ma di uno solo, con capitale in Yerushalaym. In questo contesto, alcuni o molti dei discendenti dei deportati del Regno di Israele scelsero di riconoscere la loro identità, intrinsecamente legata al Patto Davidico, quindi a Yerushalaym e non a Samaria, e ritornarono alla loro terra, terra che, da ormai due secoli non si chiamava più Israele ma Yehudah. Quindi, tutti gli Ebrei che si riconoscevano nella Torah, in Yerushalaym ed il Tempio, erano identificati come “Giudei”. Così costoro, che fino a quel momento appartenevano alla Casa di Israele, passarono ad essere membri della Casa di Yehudah, perché l’eredità spirituale che passò da Avraham a Yitzhak piuttosto che a Yishmael, da Yitzhak a Yakov piuttosto che ad Esau, era passata alla Casa di Yehudah piuttosto che a quella di Israele.

Il resto degli Ebrei che non solo non ritornarono più, ma persero di vista anche la loro identità, cioè, la ragione per cui essi erano Ebrei e non Goyim, che è fondamentalmente un fattore spirituale legato alla Torah, si mescolarono con altri popoli e, com’era successo con la maggioranza degli antichi Habiri, divennero dei Goyim, non più Ebrei -ovvero, ciò è accaduto a quelli che spiritualmente appartengono alla Casa di Israele-.

In conclusione, alla domanda “Chi sono gli Ebrei?”, la risposta dipende dal periodo storico in cui viene formulata: nell’origine erano i discendenti di Ever, poi quelli di Avraham, poi gli Israeliti, e dopo l’esilio in Babilonia, soltanto i Giudei, ovvero, tutti gli Israeliti delle dodici Tribù che appartengono alla Casa di Yehudah, mentre che quelli della Casa di Israele sono al giorno d’oggi gentili.
Come nel principio, il termine “Ebreo” ha due connotati diversi: l’uno fisico, etnico, e l’altro spirituale. Soltanto la Casa di Yehudah ha conservato l’eredità spirituale di Avraham, Yitzhak e Yakov, quindi, dal punto di vista spirituale, solo i Giudei sono Ebrei. Considerando l’aspetto genetico invece, se nel principio era indispensabile rimanere all’interno della famiglia di Avraham e Sarah -affinché si formassi una nazione con un’identità definita secondo l’elezione-, nel Patto Sinaitico questa condizione fu abolita, estendendo a tutti i gentili -“Gerim”- che volessero entrare, il diritto a far parte della famiglia d’Israele. Con il Patto Davidico, agli Israeliti è richiesto che si riconosca Yerushalaym come la loro città, e non Samaria o qualcun’altra. Soltanto se la Casa di Israele compie con questo requisito, può essere riunita alla Casa di Yehudah e riacquistare la sua eredità spirituale ebraica. Fino a questo momento, solo i Giudei sono depositari dell’identità ebraica e titolari del nome “Israele”.

Lo schema sopra illustra la linea dell’eredità spirituale dell’Ebraismo, trasmessa soltanto a coloro dei discendenti che osservavano i parametri stabiliti per averne titolo. In diversi periodi, ne rimasero esclusi gli Ismaeliti, gli Idumei e per ultimo, quella parte degli Israeliti che rifiutò il patto Davidico.

Benché sia stato esposto che l’ebraicità è fondamentalmente una successione di carattere spirituale, essa rimane comunque una caratteristica esclusiva dei Giudei. Ebreo o Israelita può esserlo soltanto un Giudeo. Non ha alcun valore la teoria cristiana dell’“Israele spirituale”, con cui si pretende spodestare i Giudei del loro legittimo diritto ed usurpare l’eredità spirituale che appartiene soltanto a coloro che osservano la Torah. La Casa di Israele fu esclusa da tale diritto semplicemente perché mancante di questa condizione fondamentale. Gli Israeliti ribelli del Nord credevano nello stesso Elohim di quelli di Yehudah, e formalmente riconoscevano le stesse Scritture, ma non le osservavano. Nella stessa maniera, il cristianesimo crede nello stesso Elohim dei Giudei, ed ufficialmente riconosce l’ispirazione delle Scritture Ebraiche, ma di fatto nega il carattere eterno ed universale delle stesse, e si rifiutano di osservare i comandamenti.
I cristiani non possono reclamare per sè alcun’eredità come “Israele spirituale”. Possono tuttavia tecnicamente identificarsi con la “Casa di Israele” in quanto così come il Regno del Nord adottò un sistema religioso fondato parzialmente sulla Torah, ma con le connotazioni delle religioni dei gentili, il cristianesimo è fondato sulla Bibbia, ma insegna che i comandamenti stabiliti in essa non sono più validi.
L’eredità spirituale si può ottenere soltanto se si aderisce prima al Patto Abrahamico (tramite la circoncisione) e poi al Patto Mosaico (l’osservanza della Torah). Queste sono le condizioni per il ristabilimento di coloro che discendono da quelli che una volta erano Ebrei e persero tale identità, i quali, non potendo essere ormai riconosciuti con certezza, possono ritornare ad essere Ebrei nello stesso modo che un gentile può volontariamente diventare Giudeo.



mercoledì 21 ottobre 2009

Uno dei versi più abusati della Bibbia

Rom.8:28 - Uno dei versi più abusati della Bibbia

(dal sito: http://www.messiev.altervista.org)

Tutti sanno che i versi biblici non dovrebbero essere letti fuori dal loro contesto, e molti saranno sicuramente in grado di portare esempi di brani biblici di cui è stato fatto cattivo uso. Vorrei suggerire uno dei versi più comunemente citati dalla devozione popolare di cui si abusa e che difficilmente avrete notato. Il verso al quale rimando è Rom.8:28: " noi sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali son chiamati secondo il suo proponimento".
Devo ancora vedere qualcuno attirare l'attenzione sul fatto che Rom.8:28 è stato letto per anni in maniera molto libera, separato dal contesto che, se correttamente rispettato, dà al verso un significato molto più limitato. Ho ascoltato discorsi su questo verso molte volte, ma mai in accordo con il suo scopo originale all'interno della discussione di Paolo. Messo nell'ottavo capitolo di Romani, emerge un significato diverso da quello comunemente attribuito ad esso.
Rom.8:28 è citato molto spesso con uno spirito di rassegnazione (anche se rassegnazione fiduciosa) a seguito di un qualche evento sfortunato. Probabilmente qualcuno lo citerà come risposta ad una tragedia. Se un cristiano è stato ricoverato in ospedale per un incidente automobilistico, o per un'altra disgrazia, o è colpito da una malattia, qualcuno inevitabilmente attribuirà la sfortuna alla provvidenza di Dio, citando l'assicurazione di Paolo che "tutte le cose cooperano al bene" del credente. Qualunque cosa accade è stata voluta da Dio e noi possiamo stare certi che Egli ha un alto scopo anche se per ora non riusciamo a capirlo. Possiamo chiamarla una lettura "Calvinista", anche se non è stato Calvino ad inventarla. Nel suo Commentario su Romani (1539), Calvino approva esplicitamente chi prende questo verso fuori dal contesto: "Se qualcuno vuole leggere questo verso da solo ... io non ho nulla da obiettare". La forza con la quale una persona legge Rom.8:28 con questo tipo di determinismo, dipenderà naturalmente dalle proprie tendenze teologiche, ma, come spesso accade, la capacità di citare un verso per sostenere le proprie tendenze può avere l'infelice effetto di auto-confermarsi o di confermare altri nell'errore. C'è chi cita questo verso senza attribuire tutto alla mano di Dio - piuttosto, il verso promette solo che l'intervento di Dio sarà garantito, qualunque cosa cattiva possa accadere. Questo, è già un passo in avanti rispetto alla lettura Calvinista - cioè, è teologicamente più gradevole - ma è ancora lontano dal vero significato.
Iniziando in Rom.8:18, Paolo discute la glorificazione escatologica dei figli di Dio, e si riferisce ad essa con una frase memorabile: "la manifestazione dei figliuoli di Dio" (v. 19). Non c'è dubbio che questa glorificazione si riferisce, o è strettamente collegata, con la risurrezione finale ("la redenzione del nostro corpo", v. 23). Paolo parla di questa speranza come di qualcosa che è in grado di assorbire e di far passare in secondo piano le difficoltà della vita quotidiana, in particolare la vita perseguitata dei cristiani di Roma del primo secolo, assicurando i suoi lettori della verità di quello che egli dichiara nel verso 18: "Perché io stimo che le sofferenze del tempo presente non siano punto da paragonare con la gloria che ha da essere manifestata a nostro riguardo". Questo è il contesto a cui bisogna sottoporre le varie interpretazioni di Rom.8:28. "Tutte le cose cooperano al bene"significa semplicemente: "Noi otteniamo la vittoria alla (vera) fine"! Il tempo in cui "tutte le cose" manifesteranno la loro finale benedizione non è quello della nostra attuale vita terrena, ma quello del futuro escatologico. In altre parole, Paolo non pronuncia un principio generale che tutto quello che accade è in definitiva causato dalla mano di Dio, né promette che tutto si trasformerà in bene in questa vita. Infatti, contrariamente alle opinioni di tutti quelli che citano spesso Rom.8:28, egli non sta esponendo il principio che tutte le cose sono utili in questa vita, ma quello di rendere utili i suoi insegnamenti religiosi per dare la speranza del futuro escatologico. In questa luce, vediamo che 8:28 è essenzialmente una nuova formulazione di 8:18 e deve essere interpretato con lo stesso significato.
Qualcuno adesso si potrebbe scoraggiare, quindi è meglio non finire senza ricordare che la Bibbia è un libro di speranza ed è molto interessata alla vittoria in questa vita. Alcuni possono ritenere che la mia comprensione di Rom.8:28 riduca la vita ad un gioco di possibilità e renda le ricompense di una vita cristiana lontane ed irreali. Niente affatto. La Bibbia è piena di promesse che la preghiera cambia le cose. Dio è assolutamente attivo nelle nostre vite, ma è un errore far scadere l'attività di Dio nel determinismo (come la solita lettura di Rom.8:28 a volte implica). Se accettiamo il determinismo, quale pensiamo possa essere lo scopo della preghiera?
Se sono nel giusto su Rom.8:28, allora devo sottolineare l'importanza di rispettare il contesto quando leggo la Bibbia. In un certo senso, il pericolo di citare dei versi come prova, senza alcun rispetto per il loro contesto, è più grande nelle lettere di Paolo che non in altri libri biblici. Questo è proprio perchè gli scritti di Paolo sono delle lettere, i cui ragionamenti talvolta si prolungano, si estendono, e così un dato verso può dipendere da un brano molto lungo per poterne cogliere il suo vero significato.
Tutto questo mostra anche qualcos'altro: arrivare a capire correttamente la Bibbia implica spesso sia il disimparare che l'apprendere.

Shalom
Argentino Quintavalle

domenica 13 settembre 2009

Il Vangelo di Giovanni e le fasi giudaiche del Giovannismo

Mauro Pesce

Il Vangelo di Giovanni e le fasi giudaiche del giovannismo. Alcuni aspetti

1. RICOSTRUIRE LE FASI GIUDAICHE DEL GIOVANNISMO

Affrontare il tema del Giudeo-cristianesimo in relazione al Vangelo di Giovanni richiede una spiegazione preliminare. Giovanni, infatti, è certamente il vangelo che formula con molta chiarezza una cristologia “alta” in cui la dignità divina è programmaticamente attribuita a Gesù, in quanto logos, fin dal Prologo (1,1-5.14). Nel quale Prologo, inoltre, il nomos dato mediante Mosè viene contrapposto alla charis e alla aletheia venute mediante Gesù Cristo (1,17). Ai discepoli, Gesù promette una rivelazione dello Spirito che non consiste solo in una spiegazione rivelata della Torah, ma in una verità completa (14,16-17.26; 16,13). È nel Vangelo di Giovanni che troviamo una dichiarazione di Gesù che sembra voler togliere fondamento teologico alla norma biblica del riposo sabbatico (5,17). Il Tempio di Gerusalemme è radicalmente sostituito da un culto «in spirito e verità» che non ha alcuna localizzazione (4,21-24), mentre le coordinate spaziali di riferimento non sono determinate dalla centralità del Tempio di Gerusalemme e dalla Terra di Israele, ma dall'opposizione alto-basso (3,31; 8,23; cf. 2,32-34; 3,13-14). Non la circoncisione sembra essere condizione di adesione al gruppo, bensì una rinascita dall'alto, in cui si diviene «generati da Dio» «non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo», ma direttamente da Dio (1,12-13). La questione di chi sia vero figlio di Abramo, così importante anche per Paolo, è del tutto eliminata da Giovanni, per il quale Gesù è «prima che Abramo fosse» (8,58).

Se dunque dovessimo accettare la definizione di giudeo-cristianesimo che Ch. Mimouni riporta nell'introduzione del suo recente volume dedicato a questo argomento dovremmo escludere completamente il Vangelo di Giovanni dall'indagine. Cosa che Mimouni, del resto, giustamente fa. La definizione di Mimouni è, infatti, la seguente: «Il giudeo-cristianesimo è una formulazione recente che designa dei cristiani di origine giudaica che hanno riconosciuto la messianicità di Gesù, i quali hanno riconosciuto oppure non hanno riconosciuto la divinità del Cristo, ma che tutti continuano ad osservare la Torah».

Mimouni ritiene quindi fondamentale, per determinare chi sia “giudeo-cristiano”, che si possa parlare da un lato di «cristiani» e perciò di «cristianesimo» e, dall'altro, di riconoscimento della messianicità e di «osservanza della Torah».

Il mio interesse, tuttavia, si rivolge agli anni in cui i seguaci di Gesù dapprima vivono all'interno del giudaismo e poi lentamente e in diversi modi si distaccano (a) dalle istituzioni, (b) dalle pratiche, (c) dalle concezioni e (d) dai modi di costituire comunità (o entrare in esse) che si possono definire giudaici. È il periodo che inizia subito dopo la morte di Gesù e che va all'incirca negli anni Trenta e che non sappiamo quando finisca, ma che certamente finisce in tempi diversi, a seconda delle diverse situazioni religiose e geografiche. Solo alla fine di questo periodo si può parlare di Cristianesimo e comunque non prima della metà del II secolo. Solo dopo si formerà una dottrina normativa, riconosciuta come tale, almeno in alcuni punti, dalla maggioranza delle correnti e un'organizzazione comunitaria sostanzialmente uniforme almeno in certe aree. Del resto, anche per Mimouni è fondamentale affermare che: «per il periodo che va fino al 135 [...] non sembra necessario occuparsi della definizione del giudeo-cristianesimo perché il cristianesimo non è ancora se non una corrente all'interno del giudaismo». Sul fatto che non si possa parlare di “cristianesimo” almeno per buona parte del I secolo sono d'accordo molti studiosi. Ad esempio, J.D.Crossan: «Quando la maggioranza della gente vede il termine Cristianesimo pensa ad una religione del tutto separata dal Giudaismo. Questa è una rappresentazione esatta della realtà di oggi, ma è disperatamente errata per la prima metà del primo secolo. Io potrei parlare del movimento del regno di Dio, o del movimento di Gesù, o usare qualche altra espressione storicamente corretta che ci impedisca di pensare ad una religione separata dal giudaismo. Ogni volta che uso i termini cristiano o cristianesimo in questo libro - prosegue Crossan – intendo una setta all'interno del Giudaismo. Io parlo di Giudaismo cristiano (Christian Judaism) nello stesso senso in cui parlo di Giudaismo farisaico, di Giudaismo sadduceo, di Giudaismo esseno, di Giudaismo apocalittico o di una qualsiasi delle molte sette e fazioni della Terra degli Ebrei nel Primo secolo [...]».

Personalmente, preferisco evitare l'aggettivo “cristiano” anche in questo caso, perché esso è, a mio avviso, legato ad una forma religiosa che si afferma solo dopo la metà del II secolo. Con questo non intendo dire che ogni documento del primo cristianesimo che sia anteriore alla metà del II secolo appartenga necessariamente al giudaismo. L'ultima redazione del Vangelo di Giovanni, a mio avviso, si esprime in larga parte secondo categorie culturali giudaiche o di un giudaismo ellenizzato, ma non appartiene al Giudaismo. Il fatto è che non è neppure un cristianesimo, posto che “cristianesimo” è una realtà religiosa successiva.

Agli inizi, i seguaci di Gesù facevano certamente parte del Giudaismo nei quattro aspetti che ho sopra elencato. Se essi non possono essere definiti cristiani, come definirli allora? Quelli di loro che erano Giudei di nascita possono definirsi certamente “giudei”. Quelli invece che erano non-giudei di nascita, e cioè i cosidetti “pagani”, in alcuni casi furono circoncisi e perciò entrarono a far parte del popolo giudaico e possono anch'essi definirsi “giudei”. Gli altri non-giudei che non furono circoncisi, e che però erano seguaci di Gesù, adottavano pratiche, concezioni giudaiche, ed erano sottomessi ad istituzioni e facevano parte di comunità o gruppi che si possono definire giudaici. Il fatto è che i termini “giudeo” o “giudaismo”, e “pagano” significano molte cose diverse, cosicché spesso si mettono a confronto concetti non equivalenti. “Giudeo” o “giudaico” può riferirsi almeno a due realtà sociali diverse. In un primo caso, "giudeo" definisce l'appartenenza ad un gruppo etnico in seguito a nascita o adesione ufficiale tramite riti. In un secondo caso, definisce, invece, modi di vita, concezioni, istituzioni, meccanismi di adesione a gruppi.

In sostanza, nel primo caso, "giudaico" si riferisce ad un ethnos e ai suoi singoli membri; nel secondo, ad una cultura e ai singoli aspetti di essa. Quando parliamo di "pagano", a prescindere dal fatto che tale termine è scorretto e dovrebbe essere per sempre abbandonato, ci si riferisce almeno a tre cose socialmente diverse. Per "pagano" possiamo intendere una persona che per nascita è non-giudea e che giudea non è diventata. In realtà, anche da questo punto di vista non è corretto contrapporre giudei e pagani in quanto non-giudei, perché il concetto di "pagano" applicato ai non-giudei, li definisce non per caratteristiche loro proprie, ma per il fatto di non condividere l'appartenenza all'ethnos giudaico. Sarebbe molto meglio confrontare giudei con romani, o con illirici, egiziani, ecc. In un secondo senso, "pagano" si riferisce invece alle religioni tradizionali non-ebraiche del mondo greco-romano e definisce perciò non una cultura, ma un elemento della cultura, la religione. Infine, "pagano" può indicare le antiche culture greco-romane. Ma della cultura greco-romana del I secolo facevano parte anche i Giudei. Cosicché, da questo punto di vista, non si può opporre giudaico a pagano, perché, ripeto, da questo terzo punto di vista, i giudei sono sempre anche "pagani" come cultura. Per tutti questi motivi, adotto in questo articolo il concetto di sistema religioso. Non parlo di religioni ma di sistemi religiosi. I tre elementi essenziali e imprescindibili di un sistema religioso sono (a) un gruppo sociale, (b) un insieme coerente di prassi religiose e (c) un complesso di concezioni culturali o visioni del mondo, condivise dal medesimo gruppo sociale.

Il concetto di sistema religioso mi sembra che permetta di affrontare in modo più concreto il problema della transizione da una religione all'altra. Credo che si possa dire che un movimento, corrente o comunità non è più "giudaico" quando di distacca nettamente dal giudaismo nei tre elementi costitutivi di ogni sistema religioso: le pratiche, le concezioni, i modi di adesione al gruppo. A questo proposito, richiamo osservazioni che ho scritto in collaborazione con A. Destro: «Quando si può dire [...] che un gruppo, nato all'interno del monoteismo ebraico, se ne distacchi in modo tale da configurare un nuovo sistema religioso? E quando invece si può pensare che costituisca semplicemente un movimento all'interno del monoteismo ebraico? Riteniamo che si dia un nuovo sistema religioso quando per aderirvi non è considerata condizione necessaria l'essere ebrei; quando le sue concezioni si presentano come effetto di una rivelazione diretta di Dio e con accentuati caratteri di diversità rispetto alla rivelazione precedente; quando la prassi rituale è diversa ed autonoma. Riteniamo, invece, che una nuova formazione sia semplicemente un movimento interno all'ebraismo quando il gruppo che lo costituisce continua ad essere composto da soli ebrei; quando le concezioni nuove consistono in reinterpretazioni della tradizione data e la sua prassi rituale non è indipendente».

Preferisco, perciò, chiamare il sistema religioso che si esprime nel Vangelo di Giovanni con un neologismo: "giovannismo", adottando il termine che Adriana Destro ed io abbiamo coniato in precedenza. Forse i membri della comunità giovannista intendevano se stessi come "i veri adoratori" (cf. Gv 4,25). Ma non siamo certi di poter ricostruire la loro autodefinizione. Perciò preferisco usare il termine "giovannismo" che chiarisce la sua differenza sia rispetto al giudaismo dell'epoca sia al cristianesimo futuro, sia al giudeo-giovannismo che lo precedette.

Il Vangelo di Giovanni, infatti, nonostante si sia ormai distaccato dai sistemi religiosi di quelli che egli chiama "Giudei", ci testimonia sia (a) alcuni aspetti del trapasso da un sistema religioso giudaico ad uno che non lo è più (senza per altro essere "cristiano"), sia (b) alcuni elementi del come concretamente i seguaci di Gesù furono membri della religione giudaica pur appartenendo a comunità che avevano una loro propria visione del giudaismo. Ed è da questo punto di vista che vorrei parlarne in queste pagine, sperando che le mie osservazioni possano essere utili ad un qualche chiarimento sulla questione del Giudeo-cristianesimo. Sono, infatti, convinto che il Vangelo di Giovanni ci permette di ricostruire alcune fasi della storia del giovannismo che possono chiarire alcuni aspetti delle pratiche e delle credenze dei cosiddetti "giudeo-cristiani".

Il Vangelo di Giovanni ci permette, infatti, di mettere a fuoco una serie di forme religiose giudaiche che i seguaci di Gesù di tendenza giovannista condivisero e, in secondo luogo, una serie di temi (non tutti, ma solo una scelta operata dal redattore) intorno ai quali verteva il dibattito intragiudaico: tra i giudei, cioè, di tendenza giovannista e i giudei di altri gruppi. Mettere in evidenza questi due aspetti richiede di indagare il testo nei suoi strati più profondi e non limitarsi alle affermazioni esplicite.

La ricerca sul Vangelo di Giovanni degli ultimi trenta anni (assumo come terminus a quo il libro di J. L. Martyn, History and Theology in the Fourth Gospel) ha spesso sottolineato due caratteristiche: (a) che esso allude all'espulsione del gruppo giovannista dalle sinagoghe e (b) che è tipico della sua redazione il proiettare sulla vicenda di Gesù problemi che sono tipici delle comunità giovanniste coeve alla redazione del Vangelo o alle varie fasi di essa. Ciò ha portato ad indagare i motivi della espulsione dei giovannisti dalle sinagoghe e a cercare di ricostruire la dialettica interna delle comunità giovanniste, sempre sulla base delle allusioni contenute nel Vangelo. Ambedue questi aspetti ci mettono a contatto con caratteristiche giudaiche di un particolare gruppo di seguaci di Gesù. Sia Martyn che Brown ci hanno già dato delle ricostruzioni della storia della comunità giovannista di notevole interesse. Brown ritiene ad esempio che, dopo l'influenza samaritana nella comunità giovannista, si sia creata la cristologia tipicamente giovannea la quale, a sua volta, costituisce il motivo dell'espulsione dei giovannisti dalle sinagoghe definiti come "di-theists". In occasione di questa svolta, si sarebbe creato uno scisma interno alle comunità giovannee dando luogo ad una tendenza docetista da un lato ed una più affine al futuro cristianesimo dall'altro. Anche F. Manns ha cercato di ricostruire mediante il Vangelo di Giovanni il modo con cui le comunità giovannee risposero alla svolta che, a suo parere, si ebbe nel giudaismo con le cosiddette decisioni di Javne. P. N. Anderson ha recentemente presentato una stimolante ipotesi basata sul capitolo 6, in cui vorrebbe isolare quattro fasi di sviluppo della comunità giovannista. Al di là dell'alta ipoteticità di questa ricostruzione, resta certo che l'evoluzione c'è stata, anche se non possiamo precisarne sempre le forme con sicurezza.

Anderson, riallacciandosi a John Painter, ritiene metodologicamente corretto ricostruire le fasi precedenti sulla base del testo attuale quando quest'ultimo presenta il tipico meccanismo giovanneo del fraintendimento. A suo parere, infatti, il fraintendimento ha sempre una funzione "retorica", nel senso che «l'incapacità da parte dell'uditorio di Gesù di comprendere i suoi atti e le sue parole […] deve avere avuto come obiettivo la correzione di determinati atteggiamenti dei destinatari di Giovanni».

2. ASPETTI DEL GIUDAISMO GIOVANNISTA

Lo scopo di queste pagine è mettere in luce alcune caratteristiche del giudaismo giovannista e della sua evoluzione verso un sistema religioso non-giudaico che, a mio avviso, non sono state sottolineate a sufficienza o almeno nel modo con cui io vorrei farlo.

Esaminerò la questione da due punti di vista, quello delle forme religiose giudaiche in cui, secondo il Vangelo di Giovanni, sembra svolgersi la vita religiosa dei giovannisti e quello degli argomenti di frizione o dibattito che sembra si verificarono tra i giovannisti e gli altri gruppi giudaici con cui essi erano a contatto.

A questo scopo, bisogna tener conto che nel Vangelo di Giovanni sono rintracciabili sostanzialmente tre diversi momenti del rapporto tra seguaci di Gesù di tendenza giovannista e il giudaismo: (a) il rapporto di Gesù con il giudaismo del suo tempo; (b) il rapporto delle comunità giovanniste con il giudaismo del loro tempo; (c) il rapporto dell'ultimo redattore con il giudaismo del suo tempo.

Cercherò di ricostruire alcuni pochi aspetti di questa vita intragiudaica del giovannismo, utilizzando quelle osservazioni redazionali con cui il redattore vuole distinguere tra ciò che Gesù fece e disse e ciò che i discepoli del suo tempo possono comprendere grazie al possesso dello Spirito santo (cf. 2,17.21-22; 6,6; 6,64; 7,39; 8,27; 10,6; 11,51; 12,6; 12,16; 12,33; 13,7; 13,11; 13,28; 14,26.29; 15,26; 16,13-15; 16,25; 19,28; 19,35; 20,9); 21,19; 21,23). È vero che la tesi teologica del redattore è che ciò che Gesù fece e disse aveva un significato che solo chi possiede lo Spirito può comprendere. Ma, per poter ottenere quel significato spirituale, il redattore deve presupporre degli atti e delle parole di Gesù che circolavano nel suo ambiente ai quali poter applicare un'interpretazione spirituale per poter affermare le teorie teologiche che egli riteneva vere. Il meccanismo di un'interpretazione nello Spirito di parole e detti di Gesù ci permette, quindi, di venire a sapere che quegli atti e quelle parole di Gesù venivano interpretate in ben altro modo all'interno di alcune comunità di seguaci di Gesù che vivevano nella Terra di Israele. Contro tali interpretazioni, la redazione del Vangelo vuole intervenire, sostenendo che quegli atti e quelle parole di Gesù vanno interpretate, nello Spirito, in modo diverso.

Un secondo presupposto metodologico della ricostruzione è quello di utilizzare i presupposti impliciti nelle affermazioni esplicite della narrazione, supponendo che esse abbiano sempre un necessario scopo retorico che il redattore intende raggiungere implicitamente. Un esempio di questo procedimento sta nell'analisi del brano di Gv 9,22 in cui si dice che i Giudei avevano deciso di cacciare dalle sinagoghe chiunque avesse confessato che Gesù era il messia.

Infine, il procedimento usato è corretto metodologicamente anche perché il narratore stesso con la designazione di 8,31 «quei Giudei che avevano creduto in lui» si riferiva implicitamente a veri seguaci di Gesù che tuttavia non aderiscono alle tesi teologiche del redattore del Vangelo.

a. Forme religiose giudaiche condivise dai giovannisti

La concezione del tempo sociale che soggiace al Vangelo di Giovanni è quella determinata dalle feste giudaiche. Molto più che altri vangeli, Giovanni ci mostra Gesù partecipare alle feste giudaiche. Egli va sei volte in pellegrinaggio a Gerusalemme in occasione di altrettante feste. In tre casi si tratta di Pesach, in uno di Sukkot e un altro di Chanukkah. La festa non nominata potrebbe essere Shavuot. Il Vangelo conosce anche un tempo diverso, determinato dall'«ora» di Gesù e dai riti in cui si è manifestato un intervento fondamentale di Dio nei confronti di Gesù (il battesimo e il rito della voce dal cielo, cf. Gv 1,32-34 e 12,23-33). Ma il tempo di Gesù e del suo movimento o della comunità giovannista incide solo all'interno di quei ristretti gruppi e non ne valica i confini. Non diventa cultura di un'intera società. Non determina l'organizzazione della vita sociale così come il redattore del Vangelo se l'immagina. Ciò significa che egli immagina Gesù, e le comunità giovanniste per un certo periodo della loro esistenza, totalmente immersi all'interno della cultura ebraica della Terra di Israele. L'organizzazione del tempo, infatti, non è mai un fatto puramente naturale, ma dipende dalla cultura. Il ciclo annuale delle feste della Terra di Israele determina l'organizzazione della vita sociale, esprime e convalida una visione del mondo e rinnova pratiche socio-religiose di estrema rilevanza. I commentatori hanno spesso sottolineato come il Gesù di Giovanni viva alcuni momenti altamente significativi di queste feste in modo da alterarne profondamente il significato: la manna ricordata nel contesto di Pesach diventa Gesù stesso come pane di vita (6,35); l'acqua di Bat hashoebah durante la festa di Sukkot diventa «lo spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (7,37). In realtà, la rappresentazione che Giovanni ci offre della partecipazione di Gesù alle feste ebraiche, ci trasmette molto di più. Anzitutto, il Gesù di Giovanni è totalmente immerso nella struttura socio-religiosa giudaica della Terra di Israele. In secondo luogo, la redazione del Vangelo suppone implicitamente che anche le comunità giovanniste abbiano continuato a vivere i ritmi delle feste stabilite ebraiche partecipando collettivamente ai riti popolari che necessariamente vi erano legati (ad esempio: i pellegrinaggi con tutto il complesso di organizzazione socio-religiosa che essi comportano; le preghiere; i riti nel Tempio di Gerusalemme e nelle sinagoghe).

Io perciò ipotizzo che il redattore del Vangelo sappia che alcune comunità di seguaci di Gesù hanno vissuto per molto tempo all'interno delle grandi ricorrenze religiose ebraiche, conferendo loro, un significato che è diverso da quello che egli ritiene giusto. Quelle comunità avevano un loro modo di conciliare la loro identità di giudei e di seguaci di Gesù che non piace a Giovanni.

Il primo fatto

da notare è che la tradizione cristiana successiva mantiene, cristianizzandole, solo le feste di Pesach e Shavuot, ma non le altre. Ora, il Vangelo di Giovanni ci mostra che le comunità giovanniste vissero per molto tempo anche feste come Sukkot e Chanukkah, così estranee alla tradizione cristiana successiva. Chanukkah presuppone una pietà del tempio di Gerusalemme legata anche alla difesa militare della religione ebraica (cf. 1 Mac 4,36-61 e 2 Mac 10,1-8). Sukkot è una festa nazionale profondamente legata alla terra con tutti i suoi valori simbolici. Questo è un campo abbastanza vasto di indagine, che non mi sembra sia stato sufficientemente indagato con l'intento, almeno, di mettere in luce un modo fondamentalmente giudaico di vivere la sequela di Gesù. Non è un caso che si tratti di un momento storico che è stato rimosso dalla tradizione cristiana.

Il Vangelo di Giovanni, in secondo luogo, presuppone implicitamente anche una vita sinagogale delle comunità giovanniste. Si tratta dei passi in cui si parla del pericolo di essere cacciati dalle sinagoghe (9,22; 12,42; 16,2) o di quelli in cui Gesù è pensato insegnare o predicare in sinagoga (6,59; 18,20). Ma bisogna tenere conto anche delle strutture architettoniche in cui il redattore colloca le scene dei capitoli 13-17, le quali potrebbero anche alludere a diversi ambienti di una medesima sinagoga.

Da questo punto di vista, possono dare un contributo le ricerche di F. Manns che ha molto insistito su affinità tra la redazione del Vangelo e tradizioni liturgiche e teologiche della letteratura rabbinica, la quale, come è noto, è quella che ha tramandato parte dell'antica vita religiosa sinagogale. Ma, prima ancora di dedicarsi all'esame degli strati più espliciti e superficiali del testo, è necessario tenere conto dei fatti impliciti. Due volte il redattore del Vangelo ci dice i motivi per i quali i seguaci di Gesù avrebbero dovuto essere espulsi dalle sinagoghe. In 9,22 il motivo di espulsione sta nel riconoscere Gesù come messia: «già infatti i Giudei si erano accordati che se qualcuno lo avesse riconosciuto messia sarebbe stato espulso dalla sinagoga». In 12,42 il motivo per essere espulsi è «credere il lui», ma il contesto mostra che il redattore intende come oggetto del credere in Gesù una dignità superiore a quella del messia. Ugualmente, in 16,2. Il passo di 9,22 è perciò isolato rispetto a quelli di 12,42 e 16,2 nei quali il redattore suppone la confessione di una dignità di Gesù molto superiore a quella messianica come motivo della espulsione. Del resto, i frammenti di riti di ammissione al gruppo, che ritroviamo in 9,35-39; 11,26-27 e 20,26-29, presuppongono che la fede in Gesù da parte dell'adepto consistesse nel proclamare che Gesù era il Figlio dell'uomo, oppure che chi crede in lui «anche se muore vivrà» (11,25-26) o che egli è «Signore e Dio» (20,29). Tanto più strano, quindi, che il riconoscimento della funzione di messia fosse motivo di espulsione dalle sinagoghe. Diversi studiosi hanno, per di più, ripetuto che i giudeo-cristiani riconoscessero Gesù come messia e che ciò non li facesse espellere dalle sinagoghe. Come intendere allora il passo di 9,22 che, al contrario, afferma che il motivo di espulsione era il riconoscimento della messianicità di Gesù? Una prima ipotesi potrebbe essere che il redattore ha voluto semplicemente creare un crescendo tra messia e figlio dell'uomo nei vv. 22 e 35 e forse rispetto alle successive confessioni di fede di Marta (11,25-26) e Tommaso (20,28). Ma ciò priva di ogni significato retorico la menzione del ruolo della confessione messianica. Il crescendo teologico ha significato solo se rileva in un contesto storico e rispetto a precisi gruppi o a precise affermazioni teologiche. Si potrebbe però anche pensare che il redattore volesse contrapporre la fede che i "Giudei" attribuivano ai seguaci di Gesù a quella che invece essi realmente avevano. Si potrebbe però anche ipotizzare - e questo è ciò che io vorrei qui sostenere - che il redattore volesse contrapporre ad una situazione corrente nelle comunità giovanniste di una determinata epoca una visione teologica a suo parere più corretta. Da un lato, stavano quei seguaci di Gesù che ritenevano che egli fosse il messia in contrapposizione agli altri Giudei che invece non ne erano affatto convinti. Dall'altro, sta l'opinione teologica del redattore che ritiene che quella credenza dei seguaci di Gesù sia insufficiente e debba essere fondamentalmente corretta. Ciò è confermato del resto anche da Gv 1,41 dove Andrea e il discepolo senza nome dicono «abbiamo trovato il messia». Anche qui il redattore vuole correggere questo tipo di credenza e adesione a Gesù, il quale è molto di più di messia bensì «il Figlio dell'uomo» intorno al quale «gli angeli di Dio salgono e scendono» (1,51) come il Gesù di Giovanni afferma correggendo Natanele e gli altri quattro discepoli. Ma, con quella correzione, il redattore sembra avere di mira quei Giudei giovannisti che ritengono che Gesù sia semplicemente il messia. Che senso avrebbe proporre un crescendo e introdurre una correzione se non esistesse la concreta possibilità di fraintendere la natura e la funzione di Gesù?

Se ciò fosse vero, avremmo uno squarcio molto interessante sulla vita delle comunità giovanniste. Alcuni seguaci di Gesù, membri delle sinagoghe e giudei come gli altri, credevano che Gesù fosse il messia e il Vangelo afferma che questa loro credenza portava gli altri Giudei ad opporsi in modo talmente duro a loro da espellerli dalle sinagoghe. Dobbiamo perciò domandarci per quale motivo e in quale periodo sarebbe verosimile nel giudaismo della Terra di Israele pensare di espellere da una sinagoga un giudeo che ritiene che Gesù sia il messia, visto che ritenere che qualcuno sia messia non può essere di per sé motivo di espulsione. A meno che la frase di Giovanni ci trasmetta un momento in cui la vicenda politica nella Terra di Israele fosse così grave che l'adesione ad un messia morto e non vittorioso politicamente implicasse una separazione dei seguaci di Gesù dalle aspettative politico-messianiche di altri loro correligionari. Si potrebbe pensare alla rivolta iniziata nel 66. Avremmo così testimonianza implicita di un momento particolarmente difficile della vita delle comunità giovanniste in cui i motivi del conflitto con gli altri giudei non consistevano in questioni di "cristologia alta", un momento poi cancellato dall'emergere di un giovannismo o di cristianesimi diversi.

b. I temi della frizione o della discussione tra giudei seguaci di Gesù e altri giudei.

La redazione del Vangelo mi sembra metta in risalto alcuni temi di frizione o di discussione tra i diversi gruppi giudaici, mentre ne vengono lasciati in ombra altri che in altri testi del primo cristianesimo sono, invece, in primo piano. Ne enumero quattro: (a) la questione del come debba avvenire la purificazione; (b) il problema del come si possa raggiungere la propria identità; (c) la natura dell'atto di culto a Dio; (d) il sabato.

(a) La questione del come debba avvenire la purificazione. Su questo tema abbiano una serie di passi.

In 2,6 si dice che durante il banchetto di nozze a Cana erano presenti idre di pietra per «il katharismos dei Giudei». Probabilmente, la trasformazione di quell'acqua particolare in vino allude implicitamente anche ad una critica verso un'usanza (lavarsi le mani prima di mangiare) che i seguaci di Gesù contestavano, come del resto indica anche Mc 7,2 par. In 3,25, poi, si parla di una discussione tra i discepoli di Giovanni Battista e un Giudeo circa «il katharismos». Qui, probabilmente il meccanismo rituale, che il Battista praticava per ottenere la purificazione, viene posto in causa da chi si aspettava che la purificazione dovesse avvenire mediante riti del Tempio, come ad esempio Yom Kippur. Infine, abbiamo i passi di 13,10.11 e soprattutto di 15,3 dove Gesù afferma che i suoi discepoli sono «già» puri (katharoi) grazie alla parola che hanno ricevuto. Qui, il redattore di fatto afferma che la purificazione è necessaria, ma che essa non avviene né mediante i riti del tempio, né mediante immersione battesimale, bensì mediante l'accoglimento della parola di Gesù.

Mi sembra che si possa delineare una possibile evoluzione storica. Il redattore del Vangelo sembra interessato molto secondariamente al momento iniziale dell'evoluzione e cioè al dibattito storico sulla purificazione che sta al centro dell'istituzione del battesimo battista. Secondo la versione di Giuseppe Flavio (Ant XVIII,117), il Battista si proponeva con il suo rito sia la remissione dei peccati (e su questo sono d'accordo anche Mc 1,4 e Lc 3,3) mediante atti di giustizia, sia la purificazione (agneia) del corpo. Il fatto che il rito fosse finalizzato alla remissione dei peccati implicava necessariamente una discussione accesa sulla sua legittimità e sul rapporto con i riti preposti del Tempio e in particolare con quelli di Yom Kippur. Per questo, è probabile che la discussione di cui parla Gv 3,25 vertesse proprio su quale rito (battesimo battista o Yom Kippur) potesse operare la purificazione e come. Ma è sintomatico che il redattore del Vangelo non si soffermi a spiegare la questione. Evidentemente, per lui, il problema non è più rilevante. Ora, questo è sorprendente, perché la partecipazione di Gesù al battesimo di Giovanni Battista colloca storicamente Gesù proprio all'interno di quella fondamentale questione. Probabilmente, il Gesù storico aveva anch'egli dubbi seri sui meccanismi della remissione dei peccati delle istituzioni religiose ufficiali. Ma, per il redattore del Vangelo, i termini concreti del dibattito intragiudaico dei tempi di Gesù non hanno più interesse. Egli sembra avere un'idea e un interesse teologico molto secondario per il modo con cui Gesù e il Battista vedevano le cose e perché rifiutavano i riti di espiazione del Tempio da questo particolare punto di vista. Egli ha ormai totalmente reinterpretato a suo modo l'evento del battesimo di Gesù da parte del Battista. Certo, egli sa che il battesimo battista aveva a che fare con la remissione dei peccati. Ma il suo problema è quello di difendere la superiorità della funzione di Gesù. Il Battista proclama, infatti, da subito che Gesù è colui che «toglie il peccato» (Gv 1,29). Non il battesimo battista, ma la rinascita giovannista toglie il peccato. In sostanza, al redattore del Vangelo, non interessa capire perché il Battista e Gesù rifiutassero altri riti per la remissione dei peccati, ma perché i giovannisti del suo tempo dovessero rifiutare sia il battesimo di Giovanni sia altri riti ebraici relativi al perdono dei peccati e alla connessa purificazione. Per questo, il Gesù di Giovanni dice che i suoi discepoli sono stati purificati mediante la sua parola. È la parola creatrice, il logos, che abita nel sarx stesso di Gesù che purifica. Non c'è bisogno di riti di purificazione in acqua. Il giovannismo possiede, infatti, un proprio rito per il perdono dei peccati (cf. 20, 23).

Allo storico, tuttavia, non sfugge l'evoluzione. La redazione del Vangelo suppone una prima fase in cui Gesù e i suoi discepoli aderiscono alla teoria battista per la quale i riti del tempio non purificano e non tolgono i peccati, con la necessità conseguente di un rito alternativo. Il Vangelo ci dice - esso solo rispetto ai Sinottici - che Gesù battezzava e appare anche una concorrenza tra gesuani e battisti. Il che significa che il redattore del quarto vangelo presuppone implicitamente un periodo battista del movimento di Gesù. Egli lo menziona perché non può farne a meno. La questione è troppo scottante nei suoi ambienti. Quello che gli però vuole mettere in chiaro è che quel fatto (che cioè i seguaci di Gesù avevano praticato il battesimo battista), storicamente indubitabile per lui e i suoi lettori, ha un significato diverso da quello che alcuni vorrebbero dargli. Il redattore si affretta, infatti, a precisare che non Gesù in persona, ma i discepoli battezzavano. È abbastanza probabile che i seguaci giovannisti di Gesù, all'inizio credessero che l'acqua del battesimo purificasse il corpo. Nel rito battesimale, infatti, il Battista richiedeva una immersione in acqua per la purificazione del corpo, nonostante la remissione dei peccati fosse già avvenuta per atti di giustizia riparatori. Questa concezione è a mio avviso spiegabile sulla base della concezione qumraniana, testimoniata in 1QS (III,3-9), secondo cui l'espiazione avviene mediante lo Spirito, ma rimane tuttavia una contaminazione corporea che è conseguenza delle iniquità e trasgressioni passate, e che si toglie solo lentamente, anzi, secondo 1QS, solo molto lentamente (1QS VI,20-21). Questa concezione, che spiega le concezioni del Battista e di una prima fase della storia dei seguaci giovannisti di Gesù, sembra del tutto superata e accantonata dal redattore del Vangelo, per il quale la purificazione avviene non con riti di immersione, ma soltanto mediante la parola di Gesù (15,3).

Avremmo, perciò, testimonianza di una fase del giovannismo o, per essere più precisi, del giudaismo costituito, dai seguaci di Gesù di tendenza giovannista, in cui la purificazione corporea da quella contaminazione che si pensa sia conseguenza di atti di trasgressione, è ritenuta necessaria (nonostante il perdono dei peccati non avvenga mediante immersione). Tale purificazione corporea era ritenuta necessaria e possibile mediante un rito di immersione battesimale. La conferma dell'esistenza di questa fase, o almeno la plausibilità di essa, potrebbe venire da Atti 19,1-7 dove si dice esplicitamente che alcuni «discepoli» ad Efeso (dove si ritiene che il giovannismo abbia avuto una sua base) conoscessero solo un battesimo in acqua. La concezione espressa dal Vangelo di Giovanni, che potremmo definire semplicemente giovannista, continua ad affermare la necessità della purificazione, ma ritiene che la purificazione possa avvenire solo mediante l'accoglimento della parola (logos, dabar creatore) di Gesù.

(b) Un secondo tema di frizione o discussione riguarda il come raggiungere l'identità. Mi sembra chiaro che la molteplicità stessa di movimenti e correnti, come si verifica nella Terra di Israele del I secolo, manifesti una crisi di identità. Cosa significa essere giudei in una situazione di crisi caratterizzata dal dominio romano; dalla profonda ellenizzazione e romanizzazione dei costumi e degli ambienti (in particolare delle città), dei processi di produzione e consumo dei beni; dalla difficoltà di adeguare le concezioni e le prassi religiose tradizionali alla nuova complessa situazione? Le risposte diverse implicavano la costituzione di diverse forme di vita religiosa che cercano di costruire in modo diverso l'identità delle persone. La crisi dell'identità si accresce alla metà del secolo, come ci dimostra l'opera di Flavio Giuseppe: i gruppi si frammentano; i singoli passano con facilità da un gruppo all'altro.

La risposta del redattore del Vangelo di Giovanni al problema del come ogni uomo (non ogni giudeo) può raggiungere la sua identità è che l'identità si raggiunge con la rinascita, una rinascita che consiste nel nascere direttamente da Dio, mediante lo Spirito santo di Dio stesso (Gv 3, 5-8). La natura dell'uomo, o la sua identità, si raggiunge per opera di Dio attraverso un processo che implica una trasformazione essenziale della propria origine umana, sociale, etnica. Essere veramente uomini significa diventare figli di Dio, significa essere generati da Dio. E' necessaria una seconda nascita, una ri-nascita appunto.

Riguardo a questo tema è più difficile rintracciare una evoluzione storica iscritta nella redazione del Vangelo che ci trasmetta fasi diverse del giovannismo. Certo, la tematica della rinascita dall'alto, sola in grado di far diventare generati da Dio, doveva entrare necessariamente in frizione con il rito della circoncisione, mediante il quale il giudeo ottiene la sua identità. Questa non è solo una deduzione logica, ma sembra sia realmente avvenuto. Debbo ad Adriana Destro (che riprende l'analisi di alcuni testi del Levitico da parte di Heilberg-Schwartz) l'intuizione che la metafora della potatura, nella parabola della vite e dei tralci (Gv 15,1-8), (15,2) rielabori una simbologia che ha che fare con la circoncisione. La potatura, necessaria per portar frutto, allude al destino del discepolo che anch'egli deve morire se vuole seguire Gesù (vedi l'altra metafora del seme in 12,24). Ma la morte, necessaria per la rinascita, è metaforizzata con l'immagine della potatura che rende fecondi, così come il maschio può essere fecondo solo se potato/circonciso. Il fenomeno religioso che è espresso dalla metafora della rinascita può perciò essere espresso da Giovanni anche con un'altra metafora, quella della circoncisione, nel senso che, della circoncisione, viene ripensato un elemento, quello del taglio o potatura. Per essere generati da Dio, è necessario essere potati, circoncisi in modo diverso dal consueto. Gv 15,2 è perciò un brano che potrebbe conservarci testimonianza di una formulazione di una delle tesi religiose fondamentali del giovannismo nei termini religiosi giudaici consueti. Si badi bene, non è necessario pensare che rinascita dovesse necessariamente essere opposta a circoncisione. Era anche possibile mantenere insieme le due.

Potremmo, perciò, ipotizzare una fase del giovannismo in cui circoncisione e rinascita coesistevano ed una in cui si cominciò a ritenerle inconciliabili nel senso che la rinascita sostituiva la circoncisione.

(c) Il tema della natura del culto è certamente quello in cui più chiaramente il redattore del Vangelo sembra essere consapevole della grande modificazione rispetto al passato che egli sta introducendo. Le frasi di Gv 4,21-25 non hanno equivalente nel resto della tradizione evangelica. Esse appaiono chiaramente redazionali. Gesù parla al futuro. Il Gesù di Giovanni stesso ritiene che la vera adorazione senza tempio si realizzerà in un tempo successivo. L'espressione "viene l'ora ed è questa", mostra che il redattore ritiene di essere in grado di segnalare al lettore che l'ora profetizzata da Gesù si è ormai realizzata. Qui possiamo toccare uno degli aspetti della evoluzione interna al giovannismo. C'è stato un momento in cui il culto del Tempio era considerato legittimo per i seguaci di Gesù di tendenza giovannista. Solo successivamente si è pervenuti alla teoria secondo la quale, essendo Dio per sua natura spirito, può essere adorato solo in spirito e verità. Qui non intendo cercare i motivi per i quali il giovannismo è pervenuto ad elaborare la sua nuova concezione della natura del culto, né quando questo sia avvenuto. Il mio interesse è mostrare che il Vangelo presuppone una fase delle comunità dei discepoli di Gesù di tendenza giovannista in cui i riti del Tempio non erano affatto rifiutati. Anzi, la sua insistenza sul tema presuppone anche che sia ancora necessario convincere il suo uditorio della nuova teoria. Quella fase del giovannismo non sembra ancora tramontata. Il fatto che il redattore debba ricorrere alla teoria della comprensione nello Spirito per conferire alle parole di Gesù il senso di una sostituzione del Tempio mediante la presenza di Dio nel suo corpo (2,12) è testimonianza indiretta del fatto che il giudeo-giovannismo considerava il Tempio come luogo della presenza di Dio.

L'intuizione fondamentale del Vangelo di Giovanni sta nel ricondurre l'atto di culto ad una presenza dello spirito di Dio all'interno del singolo uomo. Questo è il culto in Spirito: il culto a Dio che si fa in quanto lo spirito stesso di Dio abita all'interno dell'uomo. Nello Spirito l'uomo incontra Dio, e non nel Tempio o in qualche luogo esterno all'uomo. L'aspirazione profonda del Vangelo sta nel raggiungere un contatto diretto dell'uomo con Dio che si possa realizzare all'interno stesso dell'uomo. Lo Spirito è ciò che rende possibile questa comunicazione. Non sta a me qui ricostruire il lungo percorso che da Gesù porta a queste concezioni del Vangelo di Giovanni, né quali sono stati i fattori religiosi che hanno permesso a Giovanni di formulare un'esigenza della religiosità giudaica con sfumature e forme molto vicine a quella ellenistica. L'importante, qui, è solo riconoscere che c'è stata un'evoluzione e che la redazione del Vangelo ne mostra qua è là qualche fase. L'emergere di questa teoria è probabilmente una delle cause principali di frattura interne al giovannismo. Certo, la distruzione del Tempio deve avere giuocato un ruolo fondamentale, ma sarebbe un errore pensare che quel fatto, benché rilevante, fosse la causa unica. Sappiamo che è possibile una religiosità del Tempio anche senza Tempio, come dimostra la prima letteratura rabbinica, e sappiamo che a Qumran si pervenne e prescindere dal Tempio anche quando il Tempio era ancora in funzione.

(d) Altri esempi si potrebbero aggiungere. Quello del sabato, anzitutto. Il redattore del vangelo aggiunge una giustificazione teologica radicale ignota al resto della prima tradizione cristiana: «il Padre mio opera sempre e anche io opero» (5,17). Se questa frase sta a giustificare, agli occhi del lettore, mediante una parola autorevole di Gesù, il comportamento dei giovannisti dei tempi del redattore che avevano smesso di osservare il sabato, allora saremmo in presenza di uno dei sintomi più importanti che ci mostrano che il giovannismo era ormai uscito dal giudeo-giovannismo. È solo, infatti, quando le idee prendono corpo in una precisa prassi di un preciso gruppo che esse cessano di essere delle ipotesi e delle possibilità astratte e si tramutano in esistenza storica. Fino a quel momento sono solo fantasie di singoli. Con la sola storia delle idee non si ricostruisce la storia dei fenomeni religiosi. La giustificazione teologica di Gv 5,17 sembra essere indirizzata a convincere i giudeo-giovannisti della bontà di una prassi che andava contro la più consolidata delle usanze giudaiche. Anche qui abbiamo perciò con tutta probabilità un'evoluzione da un normale rispetto del sabato ad un tipo di organizzazione comunitaria che sembra caratterizzarsi come un gruppo religioso a tendenza universalistica al di fuori della Terra di Israele o comunque al di fuori di un ambiente giudaico. In ogni caso, siamo in presenza di una svolta fondamentale tra giudeo-giovannismo e giovannismo.

3. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Ci sia permessa una breve osservazione per concludere. Questo studio lascia completamente da parte due aspetti che sarebbero importanti anche per il nostro tema e cioè la diversità di Giovanni rispetto al resto della tradizione evangelica e il fatto che Giovanni presenti una religiosità che ha caratteri molto affini a certi asepetti della religiosità ellenistico romana. Questi due aspetti permetterebbero di connotare meglio le diverse fasi del giovannismo. Ad esempio, le esigenze radicali di abbandono della famiglia, dei beni e del lavoro, così importanti per la sequela sinottica sono del tutto assenti in Giovanni, in cui, peraltro, acquista un ruolo positivo quella della famiglia di Gesù. Per altro verso, l'insistenza sul contatto diretto con Dio, sulla rinascita e sull'iniziazione spingono Giovanni verso una religiosità ellenistica o forse meglio giudaico-ellenistica. Ma non possiamo qui affrontare questi due vasti campi.

Il fatto ovvio, che tuttavia mi sembra venga troppo trascurato, è che i seguaci di Gesù vissero la loro adesione a Gesù all'interno delle forme religiosi giudaiche consuete. Quando parlo di forme religiose penso alla preghiera, al pellegrinaggio, ai riti quotidiani, alle forme di aggregazione socio-religiosa, ma anche alle istituzioni. La ricerca recente ha posto l'accento giustamente sulla pluralità di giudaismi del I secolo. Da questo punto di vista, si è voluto polemizzare anche contro l'idea di un giudaismo normativo, nel senso che in una situazione di accentuato pluralismo non esisterebbe un giudaismo più giudaico degli altri, tale da imporsi come normativo. In realtà, la questione non va posta in questi termini perché, quando si parla di molti giudaismi, non si deve pensare semplicemente ad una pluralità di concezioni. I fenomeni religiosi non debbono essere ridotti solo alle idee. Per la comprensione dei fenomeni religiosi è necessario un modello interpretativo più complesso e articolato. La società religiosa della Terra di Israele del I secolo non è il risultato di un insieme di correnti di pensiero. La sua struttura è data anzitutto da istituzioni le quali, per definizione, sono comuni a tutta una società. Esistono, poi, movimenti o comunità religiose ed esse si differenziano tra loro proprio ed anche nel modo con cui partecipano alle istituzioni. Quelle che negano alcune delle istituzioni principali e non vi partecipano sono le più settarie, le più introverse e che maggiormente si isolano dal resto della società o che al contrario mirano ad una radicale rivoluzione di essa. La maggioranza delle altre comunità o movimenti partecipa, invece, dall'interno alle istituzioni, cercando di trasformarle in base alla propria visione delle cose. Il reticolo istituzionale religioso della società giudaica in Terra di Israele non costituisce perciò né un giudaismo normativo, né un giudaismo comune, consistente in una serie di concezioni, bensi strutture organizzative che ciascuno viveva, per certi aspetti, in modi volta a volta diversi. Tuttavia, ciascun movimento o comunità ha sempre anche sue proprie forme religiose, sue proprie istituzioni che stanno in dialettica non necessariamente oppositiva con quelle della società più ampia. Così, ad esempio, un movimento religioso cattolico di oggi ha sue strutture organizzative ed istituzionali interne, pur partecipando alle situazioni religiose cattoliche generali (ad esempio, la parrocchia, la diocesi, ecc.). Bisogna rendersi conto che l'entrare in un gruppo giudaico particolare, e perciò il partecipare ai suoi riti particolari, non implicava di per sé l'uscire o l'essere espulsi dalla società religiosa più ampia cui si continuava ad appartenere. Affinché l'uscita o l'espulsione avvenisse erano necessarie determinate condizioni. Le concezioni religiose sono uno dei fattori della mobilità religiosa, ma divengono realtà sociale solo quando sono unite a pratiche sociali e modi di organizzare comunità. Quando rimangono semplici idee possono essere differentemente usate dai diversi movimenti, ma non caratterizzano una formazione sociale. I seguaci di Gesù di tendenza giovannista hanno vissuto nelle istituzioni religiose generali e in esse hanno incontrato altri giudei di diversa tendenza. È sullo sfondo della comune partecipazione alle istituzioni che va compreso il loro rapporto dialettico con il resto della società religiosa giudaica e con il resto dei movimenti di allora e con le concezioni che circolavano più o meno trasversalmente.

(dal sito di Mauro Pesce)