martedì 18 agosto 2009

Un culto senza luogo: il pensiero di Paolo

«Santo è il tempio di Dio, che siete voi»   (1 Cor 3,17)


Mauro  Pesce


1.  INTRODUZIONE

L’oggetto di questa riflessione è il culto “senza luogo”, un culto rivolto a Dio che non sia necessariamente legato ad un posto particolare diverso da altri o ad un edificio specifico nel quale esso debba necessariamente svolgersi. La caratteristica e la differenza di un culto di questo tipo non è comprensibile se prima non ci rendiamo conto in cosa consista un’adorazione di Dio legata ad un luogo preciso. Possiamo dire subito che un culto è necessariamente legato ad un luogo quando in questo luogo si manifesta la divinità o quando un’autorità religiosa che possiede sufficiente potere vieta che il culto alla divinità possa svolgersi in edifici diversi da quelli da essa deputati e controllati. In genere il luogo della manifestazione della divinità diventa un santuario, un tempio, un luogo che è sacro perché Dio vi risiede o vi si manifesta. Possiamo perciò concludere che un culto è legato ad un luogo quando si ritiene che il culto alla divinità debba svolgersi solo in un luogo o in un edificio dotato di sacralità. In sostanza questo tipo di religiosità sembra legato a treprincipi: che la divinità si manifesti in un luogo particolare e che vi risieda o continui a manifestarsi in esso; che il culto a Dio debba svolgersi solo dove la divinità si manifesta ed è presente; che il culto consista in una qualche forma di contatto con la divinità stessa. Riassuntivamente potremmo dire che un culto legato ad un luogo si esprime di solito in un santuario o tempio (se con la parola “tempio” definiamo un edificio in cui risiede o si manifesta la divinità). Al contrario, un’adorazione di Dio che non ha bisogno di svolgersi in un luogo sacro darà luogo ad una religione senza tempio.
Sulla base di questa definizione, possiamo dire che una chiesa cattolica è un tempio, poiché in essa c’è sempre la presenza dell’Eucaristia, ovvero del corpo di Cristo. Invece una sinagoga non è un tempio, poiché non c’è una presenza della divinità; allo stesso modo anche una moschea e una chiesa protestante non sono un tempio. Perciò in questi ultimi tre casi ci troviamo di fronte ad un culto senzatempio, mentre in una chiesa cattolica abbiamo un culto col tempio, in quanto le chiese cattoliche presuppongono la presenza costante della divinità sotto la forma dell’Eucaristia. Dedurre da questo che ebraismo, islam e protestantesimo sono religioni che praticano un culto senza un luogo sacro, mentre il cattolicesimo esige che il culto si svolga in un luogo sacro, sarebbe una conclusione affrettata, perchévediamo bene che anche nel cattolicesimo esistono molte forme religiose che non sono legate necessariamente ad un luogo, mentre anche ebraismo, islam e protestantesimo fanno di fatto uso di luoghi di riunione più o meno sacralizzati. Da questa prima constatazione dobbiamo quindi dedurre subito che in una religione un culto senza tempio può coesistere e di fatto coesiste molte volte con culti legati ad un tempio. In una medesima religione esistono sia persone che prediligono un culto non legato a luoghi sia persone che invece non possono fare a meno di luoghi sacralizzati e che, anzi, una stessa persona può servirsi alternativamente di ambedue i tipi di culto. Tuttavia, le religioni possono differenziarsi anche fortemente fra loro per il diverso grado di dare spazio all’una o all’altra di queste due forme di culto. Il cattolicesimo fa coesistere le due forme anche se in alcunicasi prevale in esso il culto legato a santuari e chiese sulla preghiera senza luogo. Nel giudaismo rabbinico, nel protestantesimo e nell’Islam prevale nettamente il culto non legato alla sacralità, ma la localizzazione nelle sinagoghe, nelle moschee e nelle chiese è innegabile, anche se in questi luoghi on si pensa risiedere omanifestarsi la divinità.
Dobbiamo anzitutto domandarci perché un grande numero di esperienze religiose abbiamo necessità di un culto legato ad un tempio dove risiede o si manifesti qualche forma di sacro. Si può rispondere facendo appello al bisogno dei gruppi sociali di ritrovarsi uniti in occasioni di carattere sacro. Ma la risposta più adeguata e più profonda non è di tipo sociale. La ragione ultima di praticare un culto in un luogo preciso sta nella necessità di un contatto con la divinità che risiede in quel luogo, sta nel bisogno di andare in un luogo in cui poter incontrare la divinità. Si va in quel determinato luogo, perché la divinità è lì e non la si può trovare altrove. Questa è anche la spiegazione dei pellegrinaggi: i credenti si recano in quel precisoluogo, poiché lì si trova qualcosa di non disponibile altrove. Andare in quello specifico luogo è necessario perché il culto consiste in un contatto diretto con il sacro. Senza contatto con la divinità non si realizza ciò che è assolutamente essenziale per questo tipo di religiosità.
Vorrei anche che questa riflessione non lasciasse implicito un presupposto, quello del giudizio di valore che forse è presente in alcuni settori della nostra cultura. Spesso il dibattito a favore o contro l’una o l’altra di queste due forme di culto oscilla tra due estremi. Da un lato vi sono coloro che sostengono che il culto legatoad un luogo sacro consiste in una forma arcaica e superstiziosa indegna di una religiosità spirituale e razionale oppure in forme religiose dominate da ceti sacerdotali che utilizzano i luoghi sacri per controllare la popolazione e per arricchirsi mediante i proventi che derivano necessariamente dalla frequenza collettiva nei luoghi sacri. Dall’altro sta la posizione di coloro che vedono nel culto interiore e spirituale a Dio forme di tendenziale annullamento della rilevanza sociale della religione o forme di incontrollabile individualità e soggettività dell’esperienza religiosa che porta con sé il pericolo di assolutizzare comportamenti a volte contrari alla moralità e al rispetto della convivenza tra persone in nome di una personalissima e incontrollabile esperienza interiore del divino. Cercherò perciò di prescindere da un giudizio di valore per il quale un culto senza tempio sarebbe migliore di un culto col tempio. La mia riflessione non parte dal presupposto del disprezzo verso le persone che praticano un culto col tempio e cercano un contatto con la divinità in un luogo specifico.

2.OSSERVAZIONI SUL PRIMISSIMO CRISTIANESIMO

Non possiamo sottrarci ad alcune domande: il culto che i vangeli sinottici attribuiscono a Gesù, il culto che Paolo di Tarso praticava, e quello che viene proposto da alcune frasi del vangelo di Giovanni erano forme di culto col tempio oppure senza tempio? Erano necessariamente legati a luoghi ed edifici sacri particolari? Richiedevano un contatto con la divinità oppure no?
Se si trattava di forme di culto senza tempio dobbiamo domandarci quale sia la natura di questa forma di culto, soprattutto per un aspetto centrale: essa consiste in un contatto diretto con la divinità non mediata da alcun luogo edificio o persona oppure no? E in cosa consiste questo contatto diretto e perché è necessario?
Possiamo cercare di dare una risposta a queste domande esaminando la forma di culto più semplice: la preghiera, l’atto del pregare Dio. La preghiera è una forma di culto in cui ci si rivolge alla divinità con un particolare atteggiamento corporeo, con una particolare disposizione interiore considerati adatti ad entrare in contatto lapotenza soprannaturale. Vi sono forme di preghiere in cui si verifica un contatto con la divinità che il pregante verifica e altre in cui la divinità non risponde in alcun modo all’orante e non si manifesta in alcun modo presente a lui. In questo secondo caso si dà preghiera senza contatto con il divino.
Secondo il Vangelo di Luca, la preghiera che Gesù pratica è una forma religiosa con la quale egli tende a porsi in contatto con Dio. Ad esempio, Luca narra (ed è il solo vangelo a farlo) che, uscito dall’acqua appena dopo il Battesimo, Gesù prega; ed è proprio mentre sta pregando che si manifesta lo Spirito (Lc 3,21-22), dando quindiluogo ad un contatto fra Gesù e il mondo soprannaturale. E’ ancora il terzo vangelo, che diverrà poi canonico, a raccontare che Gesù, insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni, sale sul monte per pregare; ed è proprio mentre prega che avviene la sua trasformazione corporea (Lc 9,29). Quindi sembra che anche in questo caso la preghiera debba dare luogo ad un contatto con la divinità e non sia semplicemente un parlare, un chiedere, un lodare, che rimangono senza risposta. Ci deve essere uncontatto, una manifestazione del divino che, in qualche maniera, entra in Lui. In questo caso il contatto si manifesta con una trasformazione corporea, oltre che con l’apparizione di due persone dell’oltretomba e l’ascolto di una voce soprannaturale. Tuttavia, questo contatto con il soprannaturale, verificatosi in seguito a preghiera, non avviene in un tempio, bensì su un monte. Gesù non ha avuto bisogno di un santuario per cercare un contatto col divino, ma di un luogo particolare si: unmonte.
Per il quarto vangelo divenuto poi canonico, il Vangelo di Giovanni, l’obiettivo fondamentale del culto sembra essere quello di ricevere dentro di sé lo Spirito Santo che permette al credente di rimanere in contatto con Gesù (Gv 15,1-7) dopo la sua morte (Gv 20, 19-23; 14,16-17; 14,26; 15,26). Si può affermare che il cristianesimo giovannista non è una religione del libro (questa è una definizioneislamica del cristianesimo), bensì una religione dello Spirito. Il punto fondamentale è che il contatto personale con la divinità non avviene in un luogo, in un edificio, ma solo nell’interiorità dell’uomo, attraverso lo Spirito. Il quarto vangelo insiste molto su tale punto. Il contatto con Dio avviene solo in se stessi. Il Vangelo di Giovanni è l’unico che mette in bocca a Gesù una serie di affermazioni radicali: «Gesù le dice: Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità» (Gv 4, 21-24).
Il cristianesimo successivo sembra, invece, aver - se non negato - almeno corretto o accostato tali aspetti della religiosità giovannista con forme di culto legate a luoghi. Ha infatti riaffermato la presenza potente della divinità nei templi e anche in luoghi di apparizioni e miracoli, e perfino in oggetti come sindoni, immagini, reliquie. I pellegrinaggi verso tali luoghi e la ricerca di porsi in contatto con tali oggetti ne sono testimonianza. Abbiamo, infatti, proposto una differenza, ossia la presenza di Dio localizzata (il culto col tempio) e una ricerca di Dio non localizzata, che può avvenire in due maniere: 1. una preghiera senza contatto e 2. una preghiera con contatto con la divinità, che avviene tuttavia senza legame con oggetti e luoghi. Il Gesù storico e il giovannismo propongono una religiosità senza tempio in cui la preghiera ottiene un contatto con Dio nell’interiorità dell’uomo senza alcun bisogno di legami con luoghi e oggetti. Il cristianesimo successivo restaura le forme consuete della religiosità del tempio e del luogo sacro.
Uno storico delle religioni statunitense, Jonathan Smith, ha proposto di definire il cristianesimo primitivo come una di quelle religioni che si formano nel mondo tardo-antico. Secondo Smith sarebbero esistiti allora due tipi fondamentali di religione: 1. la “religione del qui” (in inglese here) e 2. la “religione del là” (there). La “religione del qui” è la religione domestica, quella in cui il credente ha in casa le proprie divinità. Invece la “religione del là” è la religione del tempio, esterno alla casa e centro della società, il santuario all’interno del quale abita la divinità. La religione del qui è centrata sulla famiglia e sul nucleo domestico, quella del santuario è centrata sulla città, sulla comunità politica. Distanziandosi da questi due tipi di religioni, alla fine del mondo antico nascerebbero nuove religioni (tra cui il cristianesimo primitivo), che sono le “religioni dell’ovunque” (in inglese anywhere). Gesù sarebbe uno dei rappresentanti di una religione dell’anywhere, per la quale Dio può essere adorato e trovato ovunque e non in un luogo specifico o particolare. Gesù il Vangelo di Giovanni e, come ora vedremo, anche Paolo, testimoniano una religione che esercita il suo culto verso Dio in qualsiasi luogo, andando oltre sia la religione domestica sia quella del tempio. Invece, il cristianesimo successivo, pur senza abbandonare questo nuovo tipo di religiosità, farà nuovamente un passo verso le religioni del there, con una forte localizzazione della sacralità in luoghi.


3.IL CULTO E IL SACRIFICIO SECONDO PAOLO (Romani 12, 1-21)

3.1. Un «culto razionale»
Possiamo ora affrontare i principali passi paolini che riguardano il nostro tema. Prenderemo in esame solo le lettere sicuramente autentiche: la lettera ai Romani, la 1 e 2 lettera ai Corinzi, le lettere ai Galati, ai Filippesi, la Prima lettera ai Tessalonicesi e il biglietto a Filemone. Queste sette lettere sono state scritte nell’arco di un decennio, più o meno intorno alla metà degli anni Cinquanta del Isecolo. Quindi riflettono un periodo di tempo molto particolare e circoscritto a distanza di circa un ventennio dalla morte di Gesù e da parte di un personaggio che aveva una linea teologica e religiosa molto rilevanti non condivisa da altre correnti di seguaci di Gesù del medesimo periodo, si pensi ad esempio alla corrente testimoniata da Giacomo oppure alla più tarda tendenza rappresentata dal Vangelo di Matteo.

Cominciamo con il testo della Lettera ai Romani 12,1-21:

Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito eperfetto. Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi l’insegnamento, all’insegnamento; chi l’esortazione, all’esortazione. Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia.
La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità. Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi. Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò , dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete,dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male.


Nel versetto 1 si parla - nella traduzione italiana della Conferenza Episcopale Italiana - di «culto spirituale»: «Vi esorto […] ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale». In greco le parole «culto spirituale» sono “logikê latreia”. “Latreia” significa “culto, servizio”, ossia uninsieme di azioni compiute per onorare Dio. Il culto che Paolo propone è definito da lui stesso con l’aggettivo “logikê”, aggettivo che deriva dal sostantivo “logos”, che significa “parola”, “concetto”. Quindi Paolo scrive di un culto che deve essere “concettuale”, “intellettuale”, “razionale”. La traduzione “spirituale” non è corretta, perché in greco “spirituale” si sarebbe detto “pneumatikê”, un termine che altrove Paolo usa volentieri. Se Paolo ha qui evitato l’aggettivo “pneumatikos” (=spirituale) un motivo ci deve essere. Egli ha invece preferito l’aggettivo “logikê”, ossia “razionale”. Dunque, il culto di cui Paolo parla qui è un culto speciale, che deve essere “logikê”, “razionale”.
Ora questo culto razionale consiste nell’offerta del proprio corpo («Vi esorto […] ad offrire i vostri corpi»). La domanda quindi è: perché il culto deve consistere nell’«offrire i corpi»? L’affermazione sembra a tutta prima strana e sconvolgente. Il culto “ragionevole”, “razionale”, il culto per eccellenza, l’unico culto degno di Dio, consisterebbe nell’ «offrire il corpo». Quale sia il collegamento tra la materialitàdel corpo e la razionalità del culto, non è a prima vista chiaro. Paolo però offre una qualche spiegazione immediatamente dopo perché specifica che i corpi vanno offerti «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio».
I versetti che seguono sono, infatti, una spiegazione dell’affermazione iniziale di Paolo. Una spiegazione in due parti: dapprima Paolo afferma che il primo atto da compiere è quello di cercare di capire, discernere, quale sia la volontà di Dio (versetti 2-3):

«Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi (il «non valutarsi di più di quanto sia conveniente» è già una dimensione spirituale), ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato.

Poi, nei versetti 4-5, spiega cosa significhi offrire il corpo.
Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione (il tema del corpo ritorna quindi in questi versetti, dopo essere stato presente al v. 1) così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri (il discorso anche qui riguarda il corpo).

Cominciamo dai versetti 2 e 3. «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo»: la parola “secolo” traduce la parola greca “eone” (aiôn). L’“eone” è una realtà molto estesa spazialmente e temporalmente, piena di cose e di tempo. È un mondo-tempo. Un mondo che ha una determinata quantità di tempo per esistere. Non conformarsi a questo mondo, a questo eone, significa non avere la forma che gliuomini hanno normalmente in questo eone, e perciò bisogna “trasformarsi”, assumere una forma diversa da quella normale. Il termine greco usato è “metamorphoumai”, ossia “cambiare forma”. Paolo quindi non usa la metafora della ri-nascita e neppure quella della con-versione. Per Gesù e per Giovanni Battista la metanoia, la conversione era fondamentale. Il termine “conversione” (in greco “metanoia”) è invece presente nella Lettera ai Romani solamente unavolta (2,4); e poi tre volte in 2 Cor 7,9-10; 12,21. In Paolo, in sostanza, il concetto di conversione recede molto. Con lui, entriamo in un universo mentale assai differente, anche se non totalmente divergente. La predicazione di Gesù era molto più concentrata sull’indicare cosa bisogna fare per ubbidire a Dio e, su cosa succedese non lo si fa. Certo, Dio perdona i peccatori, ma comunque il credente deve seguire l’indicazione di Gesù.
Sembra che, secondo Paolo, l’uomo abbia due possibilità: assumere la forma dell’eone presente oppure assumere un’altra forma, «rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio». Sembrerebbe che, al termine di questa trasformazione, l’esito finale è che ogni persona ha la possibilità individuale di sapere ciò che è bene. Non si tratta di adeguarsi ad una legge esterna, che viene imposta dall’esterno, bensì di una coscienza individuale, personale, che nessuno impone dal di fuori, ma che la persona ottiene quando è riuscita a cambiare forma,«rinnovando la … mente, per poter discernere la volontà di Dio».
In greco il verbo «discernere» è “dokimazein”, che significa “saper scegliere, saper giudicare”; e «volontà» è “thélêma”. Dunque l’esito finale è che il singolo credente sa giudicare qual è la volontà di Dio. Non qualcuno dall’esterno indica al credente qual è la volontà di Dio. Egli stesso, da solo, riesce ad individuare quale sia la volontà di Dio.
Qual è la connessione tra questa trasformazione (il “cambiare forma”) e l’«offrire i vostri corpi come sacrificio vivente»?

3.2. Il sacrificio
In questo brano il linguaggio di Paolo è di carattere chiaramente sacrificale, perché egli invita i lettori «ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente». Offrire e sacrificio sono termini sacrificali inequivocabili. «Corpi» vedremo quale potente valenza sacrificale può assumere. In greco il termine «i corpi» è “ta sòmata”. Essi devono essere offerti come “thysìan”. La “thysìa” è l’animale sgozzato, dal quale, con un taglio sotto la gola, si fa uscire il sangue. I credenti devono essere una vittima vivente e devono offrire il proprio corpo come si offre il corpo sacrificale della vittima.
A questo punto è necessario comprendere quali siano le concrete azioni rituali sacrificali a cui Paolo fa riferimento.
Una antropologa cattolica, Mary Douglas (1921-2007), ha scritto un volume dal titolo: “Il Levitico come letteratura”, che esamina i sacrifici descritti nel libro del Levitico. L’autrice parte dal principio che il corpo è un simbolo naturale. Il sacrificio comprende vari atti. La scelta dell’animale da offrire. Deve sempre trattarsi di un animale dal corpo perfetto. L’animale viene poi portato al Tempio dopo essere stato sottoposto ad un insieme di atti preparatori e infine viene posto in vicinanza alla divinità per comprendere se la divinità accetta o meno l’offerta. Solo allora si procedere all’uccisione rituale dell’animale nei luoghi deputati, così come vi sono dei posti appositi in cui vengono buttate le viscere; l’animale viene poi smembrato seconda una sapiente conoscenza delle parti e delle membra del corpo sacrificale, le membra vengono poi disposte in un ordine molto preciso sull’altare e vengono poi bruciate. Nel caso non si tratti di un “olocausto”, cioè di un sacrificio in cui tutto il corpo dell’animale è distrutto dal fuoco, le parti che rimangono possono poi essere mangiate sia dal sacerdote che compie il sacrificio sia da chi lo offre.
Il sacrifico è un atto rituale molto comprensibile nella cultura contadina. Il contadino prende una delle sue bestie, va in pellegrinaggio insieme ad altri ad un santuario, presso il quale l’animale viene immolato sacrificalmente. L’animale viene ucciso, spellato, rotto in pezzi, poi viene bruciato e mangiato insieme al sacerdote. Il sacrificio in cui si mangia insieme è una delle tante forme di sacrificio, che è presente – insieme ad altre – anche nella Bibbia. Nel libro del Levitico un tale sacrificio, nel quale si mangia, viene chiamato “shelamim”, mentre il sacrificio in cui l’animale sacrificato è bruciato completamente alla divinità è detto “olocausto”.
Ai tempi di Paolo i sacrifici erano assai sviluppati, sia nell’ebrasimo sia nelle religioni tradizionali dei non ebrei, tanto da essere alla base dell’economia di una città. Vi erano svariate decine di animali che venivano uccisi ogni giorno. Ciò significa che l’allevamento, la vendita delle pelli, il mercato alimentare con la vendita della carne ruotavano intorno all’attività sacrificale. Dunque i sacrifici eranouna parte fondamentale del mondo antico. Paolo lo sapeva bene e la sua simbologia in questo passo è tutta sacrificale. Non bisogna spaventarsi nel vederla spuntare così fortemente nel momento in cui egli definisce quello che deve essere l’atto religioso per eccellenza dei seguaci di Gesù. Paolo infatti dice: «Offrite le vostre membra come un sacrificio vivente».

3.3. Un nuovo ordine cosmico
Come avveniva il sacrificio?
Innanzi tutto l’animale scelto veniva consacrato. Ciò significava che l’animale veniva dato alla divinità. Per far capire il concetto di sacro, uno studioso cattolico americano, Bruce Malina fa spesso il seguente esempio. Una persona è in un negozio a comprare un paio di pantaloni e li vede ancora tutti appesi in esposizione; accanto a lei si avvicina c’è un’altra persona, che pure vorrebbe scegliere dei pantaloni. Se la seconda persona tocca gli stessi pantaloni appesi che sta toccando la prima, quest’ultima inizia ad irritarsi, in quanto aveva già individuato quei pantaloni come oggetto della propria scelta. Tuttavia, poiché si trovano ancora appesi e non ha avuto ancora il tempo di prenderli in mano, sa che l’altra persona può toccarli senza commettere una indelicatezza.
Se invece la prima persona avesse già scelto un paio di pantaloni, li avesse già presi e magari appoggiati su un banco, il fatto che un’altra vada a toccare quegli stessi pantaloni, le provoca un’irritazione decisamente maggiore. Il motivo è che, con il prelevamento e lo spostamento sul banco, si è già in una fase successiva: quei pantaloni sono già stati scelti e presi anche se ancora in modo provvisorio.Infine, se l’altra persona afferrasse i pantaloni mentre la prima li ha già in mano e si sta dirigendo verso la cassa per pagarli e portarli via, allora scoppierebbe certamente un litigio. Il motivo è che, nonostante i pantaloni non siano stati ancora acquistati, essi tuttavia sono stati già sottoposti a tre fasi di avvicinamento o spostamento nell’ambito della futura acquirente.
Queste fasi corrispondono alle diversi fasi di sacralizzazione. “Sacralizzare” significa prendere da un ambito e portare in un altro ambito. Quando l’animale è stato “spostato” nell’ambito sacro, è sacralizzato; appartiene solamente a Dio e non può essere più toccato da chi appartiene ad un ambito profano o utilizzato per scopi profani.
Tutte le volte che si parla di sacrificio si suppone sempre un’operazione di consacrazione. A questo punto comprendiamo con maggiore chiarezza che Paolo ragiona con uno schema mentale sacrificale: posto che il mondo è radicalmente diviso in due sfere, quella sacra e quella profana, ogni persona appartiene necessariamente o ad un ambito oppure all’altro. Per tale ragione Paolo scrive: «Oassumete la forma del mondo o assumete quell’altra forma, vi trasformate». Ragionando in termini sacrificali egli sa che non esistono possibilità alternative.
Nel sacrificio ci sono vari altri elementi da prendere in considerazione. Mary Douglas annota una cosa stupefacente: quando si uccide l’animale, gli addetti al culto che lo uccidono non sono degli incompetenti, in quanto lo uccidono in una maniera estremamente raffinata. Ad esempio, stanno molto attenti a come esce il sangue dalla carcassa (ciò è ovvio, in quanto il sangue serve a purificare i diversiluoghi del tempio), ma pongono anche grande attenzione al grasso (altro elemento estremamente sacro come il sangue). Inoltre dividono l’animale con estrema attenzione alle parti anatomiche dell’animale. Ciascuna di queste parti ha, infatti, nelle diverse culture religiose un particolare significato simbolico.
Finché le parti dell’animale stanno dentro di esso, ovviamente mantengono una posizione fisiologica (ad esempio, la gamba sta sotto, mentre la testa sta sopra). Ora nel sacrificio si verifica un’operazione particolare, lo smembramento del corpo dell’animale in parti dopo. Questo smembramento è un’operazione distinta dall’uccisione vera e propria e ha un significato molto importante. Già solo da questo fatto si comprende subito che il sacrificio non consiste solo nell’uccisione di un animale. Mary Douglas osserva che, dopo che l’animale è stato smembrato, le varie parti debbono essere poste sull’altare pere essere poi bruciate. Ma non nell’ordine che avevano all’interno del corpo dell’animale, bensì secondo un nuovo diverso ordine. Questo ordine diverso ha un significato enorme, in quanto rappresenta il nuovo ordine cosmico che Dio vorrebbe fosse realizzato sulla terra e nella società. Lo smembramento dell’animale e il suo rimembramento sull’altare significano che le membra del corpo assumono una posizione diversa quando sono sull’altare.
L’idea di un ordine cosmico che Dio vorrebbe nel mondo e che non esiste nasce dalla constatazione che il mondo è decisamente assai disordinato. Le grandi religioni partono tutte dal principio che ci sia una frattura tra il cielo e il mondo, tra la volontà di Dio e il mondo che va male. Perciò vengono i profeti – fondatori delle grandi religioni – a mettere in ordine e dunque a riparare la frattura, per realizzare un grande ordine cosmico, che si dovrebbe realizzare nel mondo e che nell’azionesacrificale è simboleggiato dal modo con cui le parti dell’animale sono poste sull’altare.
Allora si capisce bene che l’atto sacrificale è un atto estremamente complesso, che tuttavia era comprensibile agli uomini del tempo di Paolo e a Paolo stesso. E si capisce meglio anche la frase dell’Apostolo che esorta i cristiani ad «offrire i vostri corpi come sacrificio vivente». Questa frase significa mettere sull’altare, ossia sulla legna che dovrà poi essere incendiata, i nostri corpi ma in modo che i nostri corpi assumano una forma diversa da quella normale, una forma, un ordine cioè che è quello voluto da Dio e che tale si realizza solo quando i corpi sono offerti sacrificalmente, dopo l’uccisione rituale. È questa la metafora potentissima che soggiace al testo paolino. Non si tratta ovviamente di uccidere i fedeli perché possano assegnare un ordine diverso alle membra del proprio corpo collocandolesull’altare. L’operazione di smembramento e rimembramento deve essere fatto da vivi. E questa operazione che diventa un culto che è - sì - sacrificale, ma anche «razionale».
È razionale, poiché, tramite un riordinamento del proprio corpo, i credenti devono trovare all’interno della propria ragione la comprensione della volontà di Dio. Tutto ciò avviene attraverso un cambiamento di forma del corpo. Non stupisca questa concentrazione sul corpo, perché a ben vedere tutto ciò che riguarda l’uomo avviene nel corpo. Come oggi siamo anche più preparati a comprendere. Come si vede, si tratta di un testo paolino complesso.
Abbiamo interpretato la metafora dell’«offrire i vostri corpi come sacrificio («immolazione») vivente» nel senso che il corpo deve essere ricollocato su un altare. La funzione che adempiva l’altare, era quella di permettere un rimembramento, una ricollocazione delle diverse membra del corpo in un diverso ordine rispetto a quello che avevano nel corpo dell’animale. Ma questa trasformazione, ricollocamento delle parti del corpo avveniva per un animale morto. Per i credenti viventi invece la ricollocazione, il rimembramento, il diverso ordine delle parti del corpo avviene non sull’altare, ma nel “corpo di Cristo”, un concetto paolino di estrema importanza. Ovviamente il corpo di Cristo non esistefisicamente da nessuna parte: è una metafora; questo corpo di Cristo è qualcosa che c’è, ma non si vede. Ora è proprio il corpo di Cristo che permette la trasformazione, il cambiamento di forma l’utilizzo diverso del corpo, il rimembramento dopo lo smembramento. Si tratta di un passaggio radicale del modo in cui il credente deve viver la propria realtà corporea.
La realtà corporea non è mai autonoma: può essere vissuta secondo l’organizzazione del mondo oppure secondo l’organizzazione del corpo di Cristo. Sembra che Paolo non preveda nessun altro modo di ragionare. Ciò significa che il passaggio all’essere dentro al corpo di Cristo, concretamente indica qualcosa che ha a che fare con una morte, con una negazione di desideri, di tendenze, di collocazione personale del mondo. Il credente non si deve collocare in un modo, ma in un altro.
Il problema è quello di riuscire a capire quale sia la volontà di Dio, cosa Dio vuole dal credente, come Egli vuole che il credente si collochi nella nuova maniera, smettendo di collocarsi in una maniera considerata errata. Dunque non si tratta di un insieme di norme a cui il credente deve adeguarsi, bensì è qualcosa di più complesso.
I drammi gravi esistenziali che ciascuno deve affrontare nella propria esistenza dipendono, sembra dire Paolo, dalla difficoltà a capire dove ciascuno si colloca. La soluzione che paolo indica sembra essere quella di riuscire a trovare la propria giusta collocazione. E’ nel passaggio dal distribuire il corpo in una certa maniera all’usarlo in un’altra maniera, che sta tutto il problema che Paolo sta enunciando con parole che a noi sembrano così difficili, in quanto la pratica rituale e la simbologia sacrificale non ci appartiene più.


4. IL CORPO COME TEMPIO DI DIO (2 Corinzi 3,17-4,4)

4.1 Il seguace di Gesù immagine di Dio
La lettura del brano della Lettera ai Romani ci permette di iniziare a capire perché Paolo parla delle membra. «Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo» (vv. 4-5): entrando in Cristo, le membra vengono distaccate dal corpo e riattaccate in un altro corpo, che è il corpo di Cristo, nel quale si otterrà la capacità di giudicare da soli la volontà di Dio.
Paolo parla di metamorfosi: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi» (v. 2). Il mondo ha uno schema, una struttura, una organizzazione. I seguaci di Gesù non devono organizzarsi secondo lo schema di questo mondo, ma devono cambiare forma, dunque effettuare una metamorfosi. Secondo Paolo, ciòprodurrebbe questo rinnovamento dell’intelletto (in greco “nous”).
Vediamo ora come questo schema mentale ci permette di comprendere un brano della Seconda Lettera ai Corinzi : 2 Corinzi 3,17-4,4.
«[3,17]Il Signore [Gesù] è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. [18]E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati (ecco qui la trasformazione, ossia come è possibile per i cristiani trasformarsi) in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore.
[4,1]Perciò, investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo; [2]al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti a ogni coscienza, al cospetto di Dio.
[3]E se il nostro vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono, [4]ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula (qui ritorna il problema della mente), perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio».
«Cristo è immagine di Dio». Paolo predica il Vangelo, che è la presentazione di Cristo «che è immagine di Dio». Colui che ascolta il Vangelo riceve l’immagine di Cristo, la quale, come in uno specchio, si riflette dentro di lui. Dunque ,chi riceve il Vangelo dentro di sé ha l’immagine di Cristo dentro di sé, che viene immessa dentro al suo corpo, il quale riflette, come uno specchio, tale immagine di Cristo,che l’annunciatore del Vangelo ha presentata.
«Il Signore [Gesù] è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore»: la gloria di Cristo deve riflettersi ed imprimersi dentro ad una parte interiore del credente, che è una specie di specchio, per cui Cristo è riflesso dentro al credente. Tuttavia, ilSignore Gesù, essendo spirito, ha una capacità particolare: opera, quando viene messo dentro, fa succedere qualcosa dentro al credente. Infatti, il credente viene trasformato in quella medesima immagine, cambia forma.
«Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore»: «la gloria del Signore» è la qualità divina, è lo splendore di Dio. Paolo immagina Dio come qualcosa di splendente, come una specie di esplosione di energia luminosa, che in greco si dice “doxa” e che in italiano è tradotto “gloria”. Secondo Paolo, il Signore Gesù è il Signore della gloria (1 Cor 2,8), è pieno di tale sostanza divina splendente, che si specchia dentro i credenti e che, in qualche modo, trasmette questi frammenti di potenza divina dentro al corpo dei credenti, imprimendoveli come dentro ad uno specchio.
Così i credenti si trasformano: «e noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine», ossia nell’immagine di Dio che è Gesù Cristo. I credenti diventano immagine di Dio. Pertanto, il Vangelo non è una trasmissione di dottrina, bensì è opera trasformazione interiore reale. La Parola di Dio non è semplicemente un “flatus vocis”, ma è una potenza. Non è un qualcosa per cui si rimane come prima, bensì è una potenza divina che trasmette e trasforma il credente.
«E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria (è un processo spirituale che va per fasi: «di gloria in gloria»), secondo l’azione dello Spirito del Signore»: quindi l’annuncio del Vangelo non è minimamente una comunicazione di parola, bensì è una comunicazione di energia soprannaturale, in cui risiede sacramentalmente una forza efficace della presenza del soprannaturale.
Certamente, «se il nostro vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono, ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio» (vv. 3-4). Però ciò riguarda l’intelletto ed è per tale motivo che Paolo scrive che è una “logikê latréia”, è un «culto intellettuale, razionale».
Possiamo ora rileggere Romani 12 e comprenderlo meglio: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto razionale. Non conformatevi alla mentalità (allo schema) di questo secolo (di questo eone), ma trasformatevi (bisogna subire una metamorfosi) rinnovando la vostra mente (il vostro intelletto), per poter discernere (per poter valutare quale sia) la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2).
Quindi Paolo sembrerebbe affermare che esistono due realtà, profondamente diverse, quella dell’eone di questo mondo e quella della realtà dello Spirito. E all’uomo sono possibili due soluzioni: quella di avere la forma del mondo, dell’eone presente, oppure quella di avere la forma dello Spirito. L’uomo può avere o la forma del mondo o la forma di Dio. Entrambe implicano un qualche mutamento. La trasformazione ad immagine di Dio si può ottenere attraverso la predicazione del Vangelo, che è l’operazione per la quale l’immagine di Dio, che è Gesù Cristo, si riflette nell’uomo.
È come si trova scritto in Genesi: «Maschio e femmina li creò, a immagine di Dio li creò» (cf. Gen 1,27). L’uomo dovrebbe essere immagine di Dio, ossia idolo di Dio, statua di Dio. Infatti le statue sono degli idoli, delle immagini di qualcosa. L’uomo dovrebbe essere idolo di Dio, ossia chi vede l’uomo dovrebbe poter dire che è Dio. Cristo è l’immagine di Dio. Secondo Paolo, i credenti devono trasformarsi, diventando immagine di Cristo e, quindi, immagine di Dio nel proprio intelletto.
La frase citata come sottotitolo del nostro incontro è presente in due punti di 1 Corinzi; infatti è ripetuta due volte in due modi diversi in 3,16-17 e in 6,12-20.
In 3,16-17 si legge: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi». Il tempio è il luogo in cui abita la divinità, e il tempio è il corpo dei credenti.
In 6,12-20 si trova: «[12]‘Tutto mi è lecito!’. Ma non tutto giova. ‘Tutto mi è lecito!’. Ma io non mi lascerò dominare da nulla (probabilmente Paolo stesso sosteneva: «In Cristo tutto mi è possibile»; ma i cristiani di Corinto interpretavano questa idea inmaniera sbagliata). [13]‘I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!’ (probabilmente anche Paolo stesso lo diceva). Ma Dio distruggerà questo e quelli; il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo (sembra che alcuni cristiani di Corinto pensassero che, se tutto è lecito, allora è possibile fare tutto ciò che si vuole. Se «il ventre è per i cibi e i cibi per il ventre», anche gli organi sessuali sono per il sesso e quindi si ipotizzava una libertà sessuale assoluta). [14]Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza.
[15]Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? (evidentemente a Corinto alcuni cristiani ritenevano che fosse lecito andare con le prostitute. Costoro radicalizzavano il punto della libertà assoluta, non riconoscendo più la morale tradizionale ebraica o conformistica pagana) Non sia mai! [16]O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo solo. [17]Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. [18]Fuggite la fornicazione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo. [19]O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi (i cristiani non appartengono a loro stessi, perché sono entrati nel recinto sacro: sono stati “consacrati”, come i pantaloni che sono stati comprati dell’esempio precedente)? [20]Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!».
L’uomo non appartiene più a questo eone. L’uomo di Paolo o appartiene a questo mondo, o appartiene a Dio; e ottiene libertà unicamente se appartiene a Dio.
«Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?»: il problema è che il corpo è «tempio dello spirito Santo». Il culto avviene soltanto nel corpo e, d’altra parte, l’uomo non ha che il corpo; non ha nient’altro, se non il corpo. L’uomo è un essere corporeo.
«Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? (…) Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!»: vi è una grande insistenza di Paolo sulla santità e il corpo.

4.2. Resi santi per opera di Dio
Come si chiamavano i membri della “ekklesìa”, della comunità, dell’assemblea secondo Paolo? Nelle lettere paoline non si trova mai il termine “cristiani”, ma l’Apostolo usa due termini molto più significativi: “i santi” e “i fratelli”.
Cosa significa “i santi”?
Nel saluto iniziale delle lettere ai Romani, ai Corinzi e ai Filippesi, Paolo si rivolge ai membri delle chiese (assemblee, “ekklesìai”) chiamandoli “i santi”. Il fatto che sia questo l’appellativo che appare nel saluto indica che, per Paolo, la santità è una qualità distintiva primaria dell’identità di chi appartiene all’ekklesìa. È importante ilfatto che, in tutti i quattro casi di saluto citati, il sostantivo “i santi” sia preceduto dal participio passato “chiamati”.
In Paolo, il termine “i santi” non ha lo stesso significato che ha oggi, ossia di chi “fa cose buone”, per cui i cristiani si dividono in due gruppi: i santi e coloro che non lo sono. Per Paolo, tutti i cristiani sono “santi”. Non perché siano santi moralmente, ma perché sono stati santificati dalla presenza di Dio nel battesimo e perciò laloro definizione è “i santi”. Sono “santi”, perché la santità è stata loro regalata da Dio ed è stata impressa in loro.
Da questo punto di vista è fondamentale un brano di 1 Tessalonicesi: «Il Dio stesso della pace vi santificherà (anche: «vi renderà sacri») e tutto integro vi santificherà totalmente e tutto integro il vostro spirito (“pneuma”) e l’anima e il corpo siano custoditi in modo irreprensibile nella venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi ha chiamati è fedele, egli lo farà » (1 Ts 5,23-24, traduzione letterale). Quindi tale santificazione penetra tutto l’essere dell’uomo.
Ricordiamo che, per Paolo, nell’uomo esistono il “pneuma” (lo spirito), la “psychê” (l’anima) e il “sôma” (il corpo). La dimensione “psichica” è quella dei ragionamenti e non è la più importante; ce n’è una misteriosa, più profonda,ossia il “pneuma”. Tuttavia, la santificazione non riguarda solamente il “pneuma”, ma pure la “psichê” e riguarda soprattutto il “sôma”, il corpo.
La santificazione è chiaramente opera di Dio e non dell’uomo. Quindi il culto – l’unico culto di cui Paolo pensa si possa parlare – è quello che avviene dentro il corpo di ciascuno, grazie all’intervento soprannaturale di una forza soprannaturale, che imprime una specie di immagine di Dio, la quale può trasformare l’uomo e renderlo in grado di giudicare da solo, proprio perché giudica in base allo stessointelletto di Cristo. Comunque, si tratta di un processo lento, di una metamorfosi che si può manifestare progressivamente.
Ecco spiegato perché le ekklêsìai non erano luoghi in cui ci fosse una presenza divina particolare esterna, con degli armadi o con dei tabernacoli. La religiosità di Paolo non è una religiosità del santuario, non è un culto con il tempio. Non è una religiosità del “There”, di un “là” lontano dal singolo. Quello che Paolo propone è unculto senza santuario, perché il culto razionale può avvenire solo all’interno dell’uomo, e provoca una trasformazione del corpo, una trasformazione radicale perché incide dentro l’uomo e nella sua fisicità e non riguarda qualcosa di lontano, di separato, in un tempio o in un’abitazione. Siamo chiaramente all’interno di quella che è una religione dell’anywhere, dell’ovunque, come ci ha insegnato JonathanSmith.

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