domenica 13 settembre 2009

Il Vangelo di Giovanni e le fasi giudaiche del Giovannismo

Mauro Pesce

Il Vangelo di Giovanni e le fasi giudaiche del giovannismo. Alcuni aspetti

1. RICOSTRUIRE LE FASI GIUDAICHE DEL GIOVANNISMO

Affrontare il tema del Giudeo-cristianesimo in relazione al Vangelo di Giovanni richiede una spiegazione preliminare. Giovanni, infatti, è certamente il vangelo che formula con molta chiarezza una cristologia “alta” in cui la dignità divina è programmaticamente attribuita a Gesù, in quanto logos, fin dal Prologo (1,1-5.14). Nel quale Prologo, inoltre, il nomos dato mediante Mosè viene contrapposto alla charis e alla aletheia venute mediante Gesù Cristo (1,17). Ai discepoli, Gesù promette una rivelazione dello Spirito che non consiste solo in una spiegazione rivelata della Torah, ma in una verità completa (14,16-17.26; 16,13). È nel Vangelo di Giovanni che troviamo una dichiarazione di Gesù che sembra voler togliere fondamento teologico alla norma biblica del riposo sabbatico (5,17). Il Tempio di Gerusalemme è radicalmente sostituito da un culto «in spirito e verità» che non ha alcuna localizzazione (4,21-24), mentre le coordinate spaziali di riferimento non sono determinate dalla centralità del Tempio di Gerusalemme e dalla Terra di Israele, ma dall'opposizione alto-basso (3,31; 8,23; cf. 2,32-34; 3,13-14). Non la circoncisione sembra essere condizione di adesione al gruppo, bensì una rinascita dall'alto, in cui si diviene «generati da Dio» «non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo», ma direttamente da Dio (1,12-13). La questione di chi sia vero figlio di Abramo, così importante anche per Paolo, è del tutto eliminata da Giovanni, per il quale Gesù è «prima che Abramo fosse» (8,58).

Se dunque dovessimo accettare la definizione di giudeo-cristianesimo che Ch. Mimouni riporta nell'introduzione del suo recente volume dedicato a questo argomento dovremmo escludere completamente il Vangelo di Giovanni dall'indagine. Cosa che Mimouni, del resto, giustamente fa. La definizione di Mimouni è, infatti, la seguente: «Il giudeo-cristianesimo è una formulazione recente che designa dei cristiani di origine giudaica che hanno riconosciuto la messianicità di Gesù, i quali hanno riconosciuto oppure non hanno riconosciuto la divinità del Cristo, ma che tutti continuano ad osservare la Torah».

Mimouni ritiene quindi fondamentale, per determinare chi sia “giudeo-cristiano”, che si possa parlare da un lato di «cristiani» e perciò di «cristianesimo» e, dall'altro, di riconoscimento della messianicità e di «osservanza della Torah».

Il mio interesse, tuttavia, si rivolge agli anni in cui i seguaci di Gesù dapprima vivono all'interno del giudaismo e poi lentamente e in diversi modi si distaccano (a) dalle istituzioni, (b) dalle pratiche, (c) dalle concezioni e (d) dai modi di costituire comunità (o entrare in esse) che si possono definire giudaici. È il periodo che inizia subito dopo la morte di Gesù e che va all'incirca negli anni Trenta e che non sappiamo quando finisca, ma che certamente finisce in tempi diversi, a seconda delle diverse situazioni religiose e geografiche. Solo alla fine di questo periodo si può parlare di Cristianesimo e comunque non prima della metà del II secolo. Solo dopo si formerà una dottrina normativa, riconosciuta come tale, almeno in alcuni punti, dalla maggioranza delle correnti e un'organizzazione comunitaria sostanzialmente uniforme almeno in certe aree. Del resto, anche per Mimouni è fondamentale affermare che: «per il periodo che va fino al 135 [...] non sembra necessario occuparsi della definizione del giudeo-cristianesimo perché il cristianesimo non è ancora se non una corrente all'interno del giudaismo». Sul fatto che non si possa parlare di “cristianesimo” almeno per buona parte del I secolo sono d'accordo molti studiosi. Ad esempio, J.D.Crossan: «Quando la maggioranza della gente vede il termine Cristianesimo pensa ad una religione del tutto separata dal Giudaismo. Questa è una rappresentazione esatta della realtà di oggi, ma è disperatamente errata per la prima metà del primo secolo. Io potrei parlare del movimento del regno di Dio, o del movimento di Gesù, o usare qualche altra espressione storicamente corretta che ci impedisca di pensare ad una religione separata dal giudaismo. Ogni volta che uso i termini cristiano o cristianesimo in questo libro - prosegue Crossan – intendo una setta all'interno del Giudaismo. Io parlo di Giudaismo cristiano (Christian Judaism) nello stesso senso in cui parlo di Giudaismo farisaico, di Giudaismo sadduceo, di Giudaismo esseno, di Giudaismo apocalittico o di una qualsiasi delle molte sette e fazioni della Terra degli Ebrei nel Primo secolo [...]».

Personalmente, preferisco evitare l'aggettivo “cristiano” anche in questo caso, perché esso è, a mio avviso, legato ad una forma religiosa che si afferma solo dopo la metà del II secolo. Con questo non intendo dire che ogni documento del primo cristianesimo che sia anteriore alla metà del II secolo appartenga necessariamente al giudaismo. L'ultima redazione del Vangelo di Giovanni, a mio avviso, si esprime in larga parte secondo categorie culturali giudaiche o di un giudaismo ellenizzato, ma non appartiene al Giudaismo. Il fatto è che non è neppure un cristianesimo, posto che “cristianesimo” è una realtà religiosa successiva.

Agli inizi, i seguaci di Gesù facevano certamente parte del Giudaismo nei quattro aspetti che ho sopra elencato. Se essi non possono essere definiti cristiani, come definirli allora? Quelli di loro che erano Giudei di nascita possono definirsi certamente “giudei”. Quelli invece che erano non-giudei di nascita, e cioè i cosidetti “pagani”, in alcuni casi furono circoncisi e perciò entrarono a far parte del popolo giudaico e possono anch'essi definirsi “giudei”. Gli altri non-giudei che non furono circoncisi, e che però erano seguaci di Gesù, adottavano pratiche, concezioni giudaiche, ed erano sottomessi ad istituzioni e facevano parte di comunità o gruppi che si possono definire giudaici. Il fatto è che i termini “giudeo” o “giudaismo”, e “pagano” significano molte cose diverse, cosicché spesso si mettono a confronto concetti non equivalenti. “Giudeo” o “giudaico” può riferirsi almeno a due realtà sociali diverse. In un primo caso, "giudeo" definisce l'appartenenza ad un gruppo etnico in seguito a nascita o adesione ufficiale tramite riti. In un secondo caso, definisce, invece, modi di vita, concezioni, istituzioni, meccanismi di adesione a gruppi.

In sostanza, nel primo caso, "giudaico" si riferisce ad un ethnos e ai suoi singoli membri; nel secondo, ad una cultura e ai singoli aspetti di essa. Quando parliamo di "pagano", a prescindere dal fatto che tale termine è scorretto e dovrebbe essere per sempre abbandonato, ci si riferisce almeno a tre cose socialmente diverse. Per "pagano" possiamo intendere una persona che per nascita è non-giudea e che giudea non è diventata. In realtà, anche da questo punto di vista non è corretto contrapporre giudei e pagani in quanto non-giudei, perché il concetto di "pagano" applicato ai non-giudei, li definisce non per caratteristiche loro proprie, ma per il fatto di non condividere l'appartenenza all'ethnos giudaico. Sarebbe molto meglio confrontare giudei con romani, o con illirici, egiziani, ecc. In un secondo senso, "pagano" si riferisce invece alle religioni tradizionali non-ebraiche del mondo greco-romano e definisce perciò non una cultura, ma un elemento della cultura, la religione. Infine, "pagano" può indicare le antiche culture greco-romane. Ma della cultura greco-romana del I secolo facevano parte anche i Giudei. Cosicché, da questo punto di vista, non si può opporre giudaico a pagano, perché, ripeto, da questo terzo punto di vista, i giudei sono sempre anche "pagani" come cultura. Per tutti questi motivi, adotto in questo articolo il concetto di sistema religioso. Non parlo di religioni ma di sistemi religiosi. I tre elementi essenziali e imprescindibili di un sistema religioso sono (a) un gruppo sociale, (b) un insieme coerente di prassi religiose e (c) un complesso di concezioni culturali o visioni del mondo, condivise dal medesimo gruppo sociale.

Il concetto di sistema religioso mi sembra che permetta di affrontare in modo più concreto il problema della transizione da una religione all'altra. Credo che si possa dire che un movimento, corrente o comunità non è più "giudaico" quando di distacca nettamente dal giudaismo nei tre elementi costitutivi di ogni sistema religioso: le pratiche, le concezioni, i modi di adesione al gruppo. A questo proposito, richiamo osservazioni che ho scritto in collaborazione con A. Destro: «Quando si può dire [...] che un gruppo, nato all'interno del monoteismo ebraico, se ne distacchi in modo tale da configurare un nuovo sistema religioso? E quando invece si può pensare che costituisca semplicemente un movimento all'interno del monoteismo ebraico? Riteniamo che si dia un nuovo sistema religioso quando per aderirvi non è considerata condizione necessaria l'essere ebrei; quando le sue concezioni si presentano come effetto di una rivelazione diretta di Dio e con accentuati caratteri di diversità rispetto alla rivelazione precedente; quando la prassi rituale è diversa ed autonoma. Riteniamo, invece, che una nuova formazione sia semplicemente un movimento interno all'ebraismo quando il gruppo che lo costituisce continua ad essere composto da soli ebrei; quando le concezioni nuove consistono in reinterpretazioni della tradizione data e la sua prassi rituale non è indipendente».

Preferisco, perciò, chiamare il sistema religioso che si esprime nel Vangelo di Giovanni con un neologismo: "giovannismo", adottando il termine che Adriana Destro ed io abbiamo coniato in precedenza. Forse i membri della comunità giovannista intendevano se stessi come "i veri adoratori" (cf. Gv 4,25). Ma non siamo certi di poter ricostruire la loro autodefinizione. Perciò preferisco usare il termine "giovannismo" che chiarisce la sua differenza sia rispetto al giudaismo dell'epoca sia al cristianesimo futuro, sia al giudeo-giovannismo che lo precedette.

Il Vangelo di Giovanni, infatti, nonostante si sia ormai distaccato dai sistemi religiosi di quelli che egli chiama "Giudei", ci testimonia sia (a) alcuni aspetti del trapasso da un sistema religioso giudaico ad uno che non lo è più (senza per altro essere "cristiano"), sia (b) alcuni elementi del come concretamente i seguaci di Gesù furono membri della religione giudaica pur appartenendo a comunità che avevano una loro propria visione del giudaismo. Ed è da questo punto di vista che vorrei parlarne in queste pagine, sperando che le mie osservazioni possano essere utili ad un qualche chiarimento sulla questione del Giudeo-cristianesimo. Sono, infatti, convinto che il Vangelo di Giovanni ci permette di ricostruire alcune fasi della storia del giovannismo che possono chiarire alcuni aspetti delle pratiche e delle credenze dei cosiddetti "giudeo-cristiani".

Il Vangelo di Giovanni ci permette, infatti, di mettere a fuoco una serie di forme religiose giudaiche che i seguaci di Gesù di tendenza giovannista condivisero e, in secondo luogo, una serie di temi (non tutti, ma solo una scelta operata dal redattore) intorno ai quali verteva il dibattito intragiudaico: tra i giudei, cioè, di tendenza giovannista e i giudei di altri gruppi. Mettere in evidenza questi due aspetti richiede di indagare il testo nei suoi strati più profondi e non limitarsi alle affermazioni esplicite.

La ricerca sul Vangelo di Giovanni degli ultimi trenta anni (assumo come terminus a quo il libro di J. L. Martyn, History and Theology in the Fourth Gospel) ha spesso sottolineato due caratteristiche: (a) che esso allude all'espulsione del gruppo giovannista dalle sinagoghe e (b) che è tipico della sua redazione il proiettare sulla vicenda di Gesù problemi che sono tipici delle comunità giovanniste coeve alla redazione del Vangelo o alle varie fasi di essa. Ciò ha portato ad indagare i motivi della espulsione dei giovannisti dalle sinagoghe e a cercare di ricostruire la dialettica interna delle comunità giovanniste, sempre sulla base delle allusioni contenute nel Vangelo. Ambedue questi aspetti ci mettono a contatto con caratteristiche giudaiche di un particolare gruppo di seguaci di Gesù. Sia Martyn che Brown ci hanno già dato delle ricostruzioni della storia della comunità giovannista di notevole interesse. Brown ritiene ad esempio che, dopo l'influenza samaritana nella comunità giovannista, si sia creata la cristologia tipicamente giovannea la quale, a sua volta, costituisce il motivo dell'espulsione dei giovannisti dalle sinagoghe definiti come "di-theists". In occasione di questa svolta, si sarebbe creato uno scisma interno alle comunità giovannee dando luogo ad una tendenza docetista da un lato ed una più affine al futuro cristianesimo dall'altro. Anche F. Manns ha cercato di ricostruire mediante il Vangelo di Giovanni il modo con cui le comunità giovannee risposero alla svolta che, a suo parere, si ebbe nel giudaismo con le cosiddette decisioni di Javne. P. N. Anderson ha recentemente presentato una stimolante ipotesi basata sul capitolo 6, in cui vorrebbe isolare quattro fasi di sviluppo della comunità giovannista. Al di là dell'alta ipoteticità di questa ricostruzione, resta certo che l'evoluzione c'è stata, anche se non possiamo precisarne sempre le forme con sicurezza.

Anderson, riallacciandosi a John Painter, ritiene metodologicamente corretto ricostruire le fasi precedenti sulla base del testo attuale quando quest'ultimo presenta il tipico meccanismo giovanneo del fraintendimento. A suo parere, infatti, il fraintendimento ha sempre una funzione "retorica", nel senso che «l'incapacità da parte dell'uditorio di Gesù di comprendere i suoi atti e le sue parole […] deve avere avuto come obiettivo la correzione di determinati atteggiamenti dei destinatari di Giovanni».

2. ASPETTI DEL GIUDAISMO GIOVANNISTA

Lo scopo di queste pagine è mettere in luce alcune caratteristiche del giudaismo giovannista e della sua evoluzione verso un sistema religioso non-giudaico che, a mio avviso, non sono state sottolineate a sufficienza o almeno nel modo con cui io vorrei farlo.

Esaminerò la questione da due punti di vista, quello delle forme religiose giudaiche in cui, secondo il Vangelo di Giovanni, sembra svolgersi la vita religiosa dei giovannisti e quello degli argomenti di frizione o dibattito che sembra si verificarono tra i giovannisti e gli altri gruppi giudaici con cui essi erano a contatto.

A questo scopo, bisogna tener conto che nel Vangelo di Giovanni sono rintracciabili sostanzialmente tre diversi momenti del rapporto tra seguaci di Gesù di tendenza giovannista e il giudaismo: (a) il rapporto di Gesù con il giudaismo del suo tempo; (b) il rapporto delle comunità giovanniste con il giudaismo del loro tempo; (c) il rapporto dell'ultimo redattore con il giudaismo del suo tempo.

Cercherò di ricostruire alcuni pochi aspetti di questa vita intragiudaica del giovannismo, utilizzando quelle osservazioni redazionali con cui il redattore vuole distinguere tra ciò che Gesù fece e disse e ciò che i discepoli del suo tempo possono comprendere grazie al possesso dello Spirito santo (cf. 2,17.21-22; 6,6; 6,64; 7,39; 8,27; 10,6; 11,51; 12,6; 12,16; 12,33; 13,7; 13,11; 13,28; 14,26.29; 15,26; 16,13-15; 16,25; 19,28; 19,35; 20,9); 21,19; 21,23). È vero che la tesi teologica del redattore è che ciò che Gesù fece e disse aveva un significato che solo chi possiede lo Spirito può comprendere. Ma, per poter ottenere quel significato spirituale, il redattore deve presupporre degli atti e delle parole di Gesù che circolavano nel suo ambiente ai quali poter applicare un'interpretazione spirituale per poter affermare le teorie teologiche che egli riteneva vere. Il meccanismo di un'interpretazione nello Spirito di parole e detti di Gesù ci permette, quindi, di venire a sapere che quegli atti e quelle parole di Gesù venivano interpretate in ben altro modo all'interno di alcune comunità di seguaci di Gesù che vivevano nella Terra di Israele. Contro tali interpretazioni, la redazione del Vangelo vuole intervenire, sostenendo che quegli atti e quelle parole di Gesù vanno interpretate, nello Spirito, in modo diverso.

Un secondo presupposto metodologico della ricostruzione è quello di utilizzare i presupposti impliciti nelle affermazioni esplicite della narrazione, supponendo che esse abbiano sempre un necessario scopo retorico che il redattore intende raggiungere implicitamente. Un esempio di questo procedimento sta nell'analisi del brano di Gv 9,22 in cui si dice che i Giudei avevano deciso di cacciare dalle sinagoghe chiunque avesse confessato che Gesù era il messia.

Infine, il procedimento usato è corretto metodologicamente anche perché il narratore stesso con la designazione di 8,31 «quei Giudei che avevano creduto in lui» si riferiva implicitamente a veri seguaci di Gesù che tuttavia non aderiscono alle tesi teologiche del redattore del Vangelo.

a. Forme religiose giudaiche condivise dai giovannisti

La concezione del tempo sociale che soggiace al Vangelo di Giovanni è quella determinata dalle feste giudaiche. Molto più che altri vangeli, Giovanni ci mostra Gesù partecipare alle feste giudaiche. Egli va sei volte in pellegrinaggio a Gerusalemme in occasione di altrettante feste. In tre casi si tratta di Pesach, in uno di Sukkot e un altro di Chanukkah. La festa non nominata potrebbe essere Shavuot. Il Vangelo conosce anche un tempo diverso, determinato dall'«ora» di Gesù e dai riti in cui si è manifestato un intervento fondamentale di Dio nei confronti di Gesù (il battesimo e il rito della voce dal cielo, cf. Gv 1,32-34 e 12,23-33). Ma il tempo di Gesù e del suo movimento o della comunità giovannista incide solo all'interno di quei ristretti gruppi e non ne valica i confini. Non diventa cultura di un'intera società. Non determina l'organizzazione della vita sociale così come il redattore del Vangelo se l'immagina. Ciò significa che egli immagina Gesù, e le comunità giovanniste per un certo periodo della loro esistenza, totalmente immersi all'interno della cultura ebraica della Terra di Israele. L'organizzazione del tempo, infatti, non è mai un fatto puramente naturale, ma dipende dalla cultura. Il ciclo annuale delle feste della Terra di Israele determina l'organizzazione della vita sociale, esprime e convalida una visione del mondo e rinnova pratiche socio-religiose di estrema rilevanza. I commentatori hanno spesso sottolineato come il Gesù di Giovanni viva alcuni momenti altamente significativi di queste feste in modo da alterarne profondamente il significato: la manna ricordata nel contesto di Pesach diventa Gesù stesso come pane di vita (6,35); l'acqua di Bat hashoebah durante la festa di Sukkot diventa «lo spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (7,37). In realtà, la rappresentazione che Giovanni ci offre della partecipazione di Gesù alle feste ebraiche, ci trasmette molto di più. Anzitutto, il Gesù di Giovanni è totalmente immerso nella struttura socio-religiosa giudaica della Terra di Israele. In secondo luogo, la redazione del Vangelo suppone implicitamente che anche le comunità giovanniste abbiano continuato a vivere i ritmi delle feste stabilite ebraiche partecipando collettivamente ai riti popolari che necessariamente vi erano legati (ad esempio: i pellegrinaggi con tutto il complesso di organizzazione socio-religiosa che essi comportano; le preghiere; i riti nel Tempio di Gerusalemme e nelle sinagoghe).

Io perciò ipotizzo che il redattore del Vangelo sappia che alcune comunità di seguaci di Gesù hanno vissuto per molto tempo all'interno delle grandi ricorrenze religiose ebraiche, conferendo loro, un significato che è diverso da quello che egli ritiene giusto. Quelle comunità avevano un loro modo di conciliare la loro identità di giudei e di seguaci di Gesù che non piace a Giovanni.

Il primo fatto

da notare è che la tradizione cristiana successiva mantiene, cristianizzandole, solo le feste di Pesach e Shavuot, ma non le altre. Ora, il Vangelo di Giovanni ci mostra che le comunità giovanniste vissero per molto tempo anche feste come Sukkot e Chanukkah, così estranee alla tradizione cristiana successiva. Chanukkah presuppone una pietà del tempio di Gerusalemme legata anche alla difesa militare della religione ebraica (cf. 1 Mac 4,36-61 e 2 Mac 10,1-8). Sukkot è una festa nazionale profondamente legata alla terra con tutti i suoi valori simbolici. Questo è un campo abbastanza vasto di indagine, che non mi sembra sia stato sufficientemente indagato con l'intento, almeno, di mettere in luce un modo fondamentalmente giudaico di vivere la sequela di Gesù. Non è un caso che si tratti di un momento storico che è stato rimosso dalla tradizione cristiana.

Il Vangelo di Giovanni, in secondo luogo, presuppone implicitamente anche una vita sinagogale delle comunità giovanniste. Si tratta dei passi in cui si parla del pericolo di essere cacciati dalle sinagoghe (9,22; 12,42; 16,2) o di quelli in cui Gesù è pensato insegnare o predicare in sinagoga (6,59; 18,20). Ma bisogna tenere conto anche delle strutture architettoniche in cui il redattore colloca le scene dei capitoli 13-17, le quali potrebbero anche alludere a diversi ambienti di una medesima sinagoga.

Da questo punto di vista, possono dare un contributo le ricerche di F. Manns che ha molto insistito su affinità tra la redazione del Vangelo e tradizioni liturgiche e teologiche della letteratura rabbinica, la quale, come è noto, è quella che ha tramandato parte dell'antica vita religiosa sinagogale. Ma, prima ancora di dedicarsi all'esame degli strati più espliciti e superficiali del testo, è necessario tenere conto dei fatti impliciti. Due volte il redattore del Vangelo ci dice i motivi per i quali i seguaci di Gesù avrebbero dovuto essere espulsi dalle sinagoghe. In 9,22 il motivo di espulsione sta nel riconoscere Gesù come messia: «già infatti i Giudei si erano accordati che se qualcuno lo avesse riconosciuto messia sarebbe stato espulso dalla sinagoga». In 12,42 il motivo per essere espulsi è «credere il lui», ma il contesto mostra che il redattore intende come oggetto del credere in Gesù una dignità superiore a quella del messia. Ugualmente, in 16,2. Il passo di 9,22 è perciò isolato rispetto a quelli di 12,42 e 16,2 nei quali il redattore suppone la confessione di una dignità di Gesù molto superiore a quella messianica come motivo della espulsione. Del resto, i frammenti di riti di ammissione al gruppo, che ritroviamo in 9,35-39; 11,26-27 e 20,26-29, presuppongono che la fede in Gesù da parte dell'adepto consistesse nel proclamare che Gesù era il Figlio dell'uomo, oppure che chi crede in lui «anche se muore vivrà» (11,25-26) o che egli è «Signore e Dio» (20,29). Tanto più strano, quindi, che il riconoscimento della funzione di messia fosse motivo di espulsione dalle sinagoghe. Diversi studiosi hanno, per di più, ripetuto che i giudeo-cristiani riconoscessero Gesù come messia e che ciò non li facesse espellere dalle sinagoghe. Come intendere allora il passo di 9,22 che, al contrario, afferma che il motivo di espulsione era il riconoscimento della messianicità di Gesù? Una prima ipotesi potrebbe essere che il redattore ha voluto semplicemente creare un crescendo tra messia e figlio dell'uomo nei vv. 22 e 35 e forse rispetto alle successive confessioni di fede di Marta (11,25-26) e Tommaso (20,28). Ma ciò priva di ogni significato retorico la menzione del ruolo della confessione messianica. Il crescendo teologico ha significato solo se rileva in un contesto storico e rispetto a precisi gruppi o a precise affermazioni teologiche. Si potrebbe però anche pensare che il redattore volesse contrapporre la fede che i "Giudei" attribuivano ai seguaci di Gesù a quella che invece essi realmente avevano. Si potrebbe però anche ipotizzare - e questo è ciò che io vorrei qui sostenere - che il redattore volesse contrapporre ad una situazione corrente nelle comunità giovanniste di una determinata epoca una visione teologica a suo parere più corretta. Da un lato, stavano quei seguaci di Gesù che ritenevano che egli fosse il messia in contrapposizione agli altri Giudei che invece non ne erano affatto convinti. Dall'altro, sta l'opinione teologica del redattore che ritiene che quella credenza dei seguaci di Gesù sia insufficiente e debba essere fondamentalmente corretta. Ciò è confermato del resto anche da Gv 1,41 dove Andrea e il discepolo senza nome dicono «abbiamo trovato il messia». Anche qui il redattore vuole correggere questo tipo di credenza e adesione a Gesù, il quale è molto di più di messia bensì «il Figlio dell'uomo» intorno al quale «gli angeli di Dio salgono e scendono» (1,51) come il Gesù di Giovanni afferma correggendo Natanele e gli altri quattro discepoli. Ma, con quella correzione, il redattore sembra avere di mira quei Giudei giovannisti che ritengono che Gesù sia semplicemente il messia. Che senso avrebbe proporre un crescendo e introdurre una correzione se non esistesse la concreta possibilità di fraintendere la natura e la funzione di Gesù?

Se ciò fosse vero, avremmo uno squarcio molto interessante sulla vita delle comunità giovanniste. Alcuni seguaci di Gesù, membri delle sinagoghe e giudei come gli altri, credevano che Gesù fosse il messia e il Vangelo afferma che questa loro credenza portava gli altri Giudei ad opporsi in modo talmente duro a loro da espellerli dalle sinagoghe. Dobbiamo perciò domandarci per quale motivo e in quale periodo sarebbe verosimile nel giudaismo della Terra di Israele pensare di espellere da una sinagoga un giudeo che ritiene che Gesù sia il messia, visto che ritenere che qualcuno sia messia non può essere di per sé motivo di espulsione. A meno che la frase di Giovanni ci trasmetta un momento in cui la vicenda politica nella Terra di Israele fosse così grave che l'adesione ad un messia morto e non vittorioso politicamente implicasse una separazione dei seguaci di Gesù dalle aspettative politico-messianiche di altri loro correligionari. Si potrebbe pensare alla rivolta iniziata nel 66. Avremmo così testimonianza implicita di un momento particolarmente difficile della vita delle comunità giovanniste in cui i motivi del conflitto con gli altri giudei non consistevano in questioni di "cristologia alta", un momento poi cancellato dall'emergere di un giovannismo o di cristianesimi diversi.

b. I temi della frizione o della discussione tra giudei seguaci di Gesù e altri giudei.

La redazione del Vangelo mi sembra metta in risalto alcuni temi di frizione o di discussione tra i diversi gruppi giudaici, mentre ne vengono lasciati in ombra altri che in altri testi del primo cristianesimo sono, invece, in primo piano. Ne enumero quattro: (a) la questione del come debba avvenire la purificazione; (b) il problema del come si possa raggiungere la propria identità; (c) la natura dell'atto di culto a Dio; (d) il sabato.

(a) La questione del come debba avvenire la purificazione. Su questo tema abbiano una serie di passi.

In 2,6 si dice che durante il banchetto di nozze a Cana erano presenti idre di pietra per «il katharismos dei Giudei». Probabilmente, la trasformazione di quell'acqua particolare in vino allude implicitamente anche ad una critica verso un'usanza (lavarsi le mani prima di mangiare) che i seguaci di Gesù contestavano, come del resto indica anche Mc 7,2 par. In 3,25, poi, si parla di una discussione tra i discepoli di Giovanni Battista e un Giudeo circa «il katharismos». Qui, probabilmente il meccanismo rituale, che il Battista praticava per ottenere la purificazione, viene posto in causa da chi si aspettava che la purificazione dovesse avvenire mediante riti del Tempio, come ad esempio Yom Kippur. Infine, abbiamo i passi di 13,10.11 e soprattutto di 15,3 dove Gesù afferma che i suoi discepoli sono «già» puri (katharoi) grazie alla parola che hanno ricevuto. Qui, il redattore di fatto afferma che la purificazione è necessaria, ma che essa non avviene né mediante i riti del tempio, né mediante immersione battesimale, bensì mediante l'accoglimento della parola di Gesù.

Mi sembra che si possa delineare una possibile evoluzione storica. Il redattore del Vangelo sembra interessato molto secondariamente al momento iniziale dell'evoluzione e cioè al dibattito storico sulla purificazione che sta al centro dell'istituzione del battesimo battista. Secondo la versione di Giuseppe Flavio (Ant XVIII,117), il Battista si proponeva con il suo rito sia la remissione dei peccati (e su questo sono d'accordo anche Mc 1,4 e Lc 3,3) mediante atti di giustizia, sia la purificazione (agneia) del corpo. Il fatto che il rito fosse finalizzato alla remissione dei peccati implicava necessariamente una discussione accesa sulla sua legittimità e sul rapporto con i riti preposti del Tempio e in particolare con quelli di Yom Kippur. Per questo, è probabile che la discussione di cui parla Gv 3,25 vertesse proprio su quale rito (battesimo battista o Yom Kippur) potesse operare la purificazione e come. Ma è sintomatico che il redattore del Vangelo non si soffermi a spiegare la questione. Evidentemente, per lui, il problema non è più rilevante. Ora, questo è sorprendente, perché la partecipazione di Gesù al battesimo di Giovanni Battista colloca storicamente Gesù proprio all'interno di quella fondamentale questione. Probabilmente, il Gesù storico aveva anch'egli dubbi seri sui meccanismi della remissione dei peccati delle istituzioni religiose ufficiali. Ma, per il redattore del Vangelo, i termini concreti del dibattito intragiudaico dei tempi di Gesù non hanno più interesse. Egli sembra avere un'idea e un interesse teologico molto secondario per il modo con cui Gesù e il Battista vedevano le cose e perché rifiutavano i riti di espiazione del Tempio da questo particolare punto di vista. Egli ha ormai totalmente reinterpretato a suo modo l'evento del battesimo di Gesù da parte del Battista. Certo, egli sa che il battesimo battista aveva a che fare con la remissione dei peccati. Ma il suo problema è quello di difendere la superiorità della funzione di Gesù. Il Battista proclama, infatti, da subito che Gesù è colui che «toglie il peccato» (Gv 1,29). Non il battesimo battista, ma la rinascita giovannista toglie il peccato. In sostanza, al redattore del Vangelo, non interessa capire perché il Battista e Gesù rifiutassero altri riti per la remissione dei peccati, ma perché i giovannisti del suo tempo dovessero rifiutare sia il battesimo di Giovanni sia altri riti ebraici relativi al perdono dei peccati e alla connessa purificazione. Per questo, il Gesù di Giovanni dice che i suoi discepoli sono stati purificati mediante la sua parola. È la parola creatrice, il logos, che abita nel sarx stesso di Gesù che purifica. Non c'è bisogno di riti di purificazione in acqua. Il giovannismo possiede, infatti, un proprio rito per il perdono dei peccati (cf. 20, 23).

Allo storico, tuttavia, non sfugge l'evoluzione. La redazione del Vangelo suppone una prima fase in cui Gesù e i suoi discepoli aderiscono alla teoria battista per la quale i riti del tempio non purificano e non tolgono i peccati, con la necessità conseguente di un rito alternativo. Il Vangelo ci dice - esso solo rispetto ai Sinottici - che Gesù battezzava e appare anche una concorrenza tra gesuani e battisti. Il che significa che il redattore del quarto vangelo presuppone implicitamente un periodo battista del movimento di Gesù. Egli lo menziona perché non può farne a meno. La questione è troppo scottante nei suoi ambienti. Quello che gli però vuole mettere in chiaro è che quel fatto (che cioè i seguaci di Gesù avevano praticato il battesimo battista), storicamente indubitabile per lui e i suoi lettori, ha un significato diverso da quello che alcuni vorrebbero dargli. Il redattore si affretta, infatti, a precisare che non Gesù in persona, ma i discepoli battezzavano. È abbastanza probabile che i seguaci giovannisti di Gesù, all'inizio credessero che l'acqua del battesimo purificasse il corpo. Nel rito battesimale, infatti, il Battista richiedeva una immersione in acqua per la purificazione del corpo, nonostante la remissione dei peccati fosse già avvenuta per atti di giustizia riparatori. Questa concezione è a mio avviso spiegabile sulla base della concezione qumraniana, testimoniata in 1QS (III,3-9), secondo cui l'espiazione avviene mediante lo Spirito, ma rimane tuttavia una contaminazione corporea che è conseguenza delle iniquità e trasgressioni passate, e che si toglie solo lentamente, anzi, secondo 1QS, solo molto lentamente (1QS VI,20-21). Questa concezione, che spiega le concezioni del Battista e di una prima fase della storia dei seguaci giovannisti di Gesù, sembra del tutto superata e accantonata dal redattore del Vangelo, per il quale la purificazione avviene non con riti di immersione, ma soltanto mediante la parola di Gesù (15,3).

Avremmo, perciò, testimonianza di una fase del giovannismo o, per essere più precisi, del giudaismo costituito, dai seguaci di Gesù di tendenza giovannista, in cui la purificazione corporea da quella contaminazione che si pensa sia conseguenza di atti di trasgressione, è ritenuta necessaria (nonostante il perdono dei peccati non avvenga mediante immersione). Tale purificazione corporea era ritenuta necessaria e possibile mediante un rito di immersione battesimale. La conferma dell'esistenza di questa fase, o almeno la plausibilità di essa, potrebbe venire da Atti 19,1-7 dove si dice esplicitamente che alcuni «discepoli» ad Efeso (dove si ritiene che il giovannismo abbia avuto una sua base) conoscessero solo un battesimo in acqua. La concezione espressa dal Vangelo di Giovanni, che potremmo definire semplicemente giovannista, continua ad affermare la necessità della purificazione, ma ritiene che la purificazione possa avvenire solo mediante l'accoglimento della parola (logos, dabar creatore) di Gesù.

(b) Un secondo tema di frizione o discussione riguarda il come raggiungere l'identità. Mi sembra chiaro che la molteplicità stessa di movimenti e correnti, come si verifica nella Terra di Israele del I secolo, manifesti una crisi di identità. Cosa significa essere giudei in una situazione di crisi caratterizzata dal dominio romano; dalla profonda ellenizzazione e romanizzazione dei costumi e degli ambienti (in particolare delle città), dei processi di produzione e consumo dei beni; dalla difficoltà di adeguare le concezioni e le prassi religiose tradizionali alla nuova complessa situazione? Le risposte diverse implicavano la costituzione di diverse forme di vita religiosa che cercano di costruire in modo diverso l'identità delle persone. La crisi dell'identità si accresce alla metà del secolo, come ci dimostra l'opera di Flavio Giuseppe: i gruppi si frammentano; i singoli passano con facilità da un gruppo all'altro.

La risposta del redattore del Vangelo di Giovanni al problema del come ogni uomo (non ogni giudeo) può raggiungere la sua identità è che l'identità si raggiunge con la rinascita, una rinascita che consiste nel nascere direttamente da Dio, mediante lo Spirito santo di Dio stesso (Gv 3, 5-8). La natura dell'uomo, o la sua identità, si raggiunge per opera di Dio attraverso un processo che implica una trasformazione essenziale della propria origine umana, sociale, etnica. Essere veramente uomini significa diventare figli di Dio, significa essere generati da Dio. E' necessaria una seconda nascita, una ri-nascita appunto.

Riguardo a questo tema è più difficile rintracciare una evoluzione storica iscritta nella redazione del Vangelo che ci trasmetta fasi diverse del giovannismo. Certo, la tematica della rinascita dall'alto, sola in grado di far diventare generati da Dio, doveva entrare necessariamente in frizione con il rito della circoncisione, mediante il quale il giudeo ottiene la sua identità. Questa non è solo una deduzione logica, ma sembra sia realmente avvenuto. Debbo ad Adriana Destro (che riprende l'analisi di alcuni testi del Levitico da parte di Heilberg-Schwartz) l'intuizione che la metafora della potatura, nella parabola della vite e dei tralci (Gv 15,1-8), (15,2) rielabori una simbologia che ha che fare con la circoncisione. La potatura, necessaria per portar frutto, allude al destino del discepolo che anch'egli deve morire se vuole seguire Gesù (vedi l'altra metafora del seme in 12,24). Ma la morte, necessaria per la rinascita, è metaforizzata con l'immagine della potatura che rende fecondi, così come il maschio può essere fecondo solo se potato/circonciso. Il fenomeno religioso che è espresso dalla metafora della rinascita può perciò essere espresso da Giovanni anche con un'altra metafora, quella della circoncisione, nel senso che, della circoncisione, viene ripensato un elemento, quello del taglio o potatura. Per essere generati da Dio, è necessario essere potati, circoncisi in modo diverso dal consueto. Gv 15,2 è perciò un brano che potrebbe conservarci testimonianza di una formulazione di una delle tesi religiose fondamentali del giovannismo nei termini religiosi giudaici consueti. Si badi bene, non è necessario pensare che rinascita dovesse necessariamente essere opposta a circoncisione. Era anche possibile mantenere insieme le due.

Potremmo, perciò, ipotizzare una fase del giovannismo in cui circoncisione e rinascita coesistevano ed una in cui si cominciò a ritenerle inconciliabili nel senso che la rinascita sostituiva la circoncisione.

(c) Il tema della natura del culto è certamente quello in cui più chiaramente il redattore del Vangelo sembra essere consapevole della grande modificazione rispetto al passato che egli sta introducendo. Le frasi di Gv 4,21-25 non hanno equivalente nel resto della tradizione evangelica. Esse appaiono chiaramente redazionali. Gesù parla al futuro. Il Gesù di Giovanni stesso ritiene che la vera adorazione senza tempio si realizzerà in un tempo successivo. L'espressione "viene l'ora ed è questa", mostra che il redattore ritiene di essere in grado di segnalare al lettore che l'ora profetizzata da Gesù si è ormai realizzata. Qui possiamo toccare uno degli aspetti della evoluzione interna al giovannismo. C'è stato un momento in cui il culto del Tempio era considerato legittimo per i seguaci di Gesù di tendenza giovannista. Solo successivamente si è pervenuti alla teoria secondo la quale, essendo Dio per sua natura spirito, può essere adorato solo in spirito e verità. Qui non intendo cercare i motivi per i quali il giovannismo è pervenuto ad elaborare la sua nuova concezione della natura del culto, né quando questo sia avvenuto. Il mio interesse è mostrare che il Vangelo presuppone una fase delle comunità dei discepoli di Gesù di tendenza giovannista in cui i riti del Tempio non erano affatto rifiutati. Anzi, la sua insistenza sul tema presuppone anche che sia ancora necessario convincere il suo uditorio della nuova teoria. Quella fase del giovannismo non sembra ancora tramontata. Il fatto che il redattore debba ricorrere alla teoria della comprensione nello Spirito per conferire alle parole di Gesù il senso di una sostituzione del Tempio mediante la presenza di Dio nel suo corpo (2,12) è testimonianza indiretta del fatto che il giudeo-giovannismo considerava il Tempio come luogo della presenza di Dio.

L'intuizione fondamentale del Vangelo di Giovanni sta nel ricondurre l'atto di culto ad una presenza dello spirito di Dio all'interno del singolo uomo. Questo è il culto in Spirito: il culto a Dio che si fa in quanto lo spirito stesso di Dio abita all'interno dell'uomo. Nello Spirito l'uomo incontra Dio, e non nel Tempio o in qualche luogo esterno all'uomo. L'aspirazione profonda del Vangelo sta nel raggiungere un contatto diretto dell'uomo con Dio che si possa realizzare all'interno stesso dell'uomo. Lo Spirito è ciò che rende possibile questa comunicazione. Non sta a me qui ricostruire il lungo percorso che da Gesù porta a queste concezioni del Vangelo di Giovanni, né quali sono stati i fattori religiosi che hanno permesso a Giovanni di formulare un'esigenza della religiosità giudaica con sfumature e forme molto vicine a quella ellenistica. L'importante, qui, è solo riconoscere che c'è stata un'evoluzione e che la redazione del Vangelo ne mostra qua è là qualche fase. L'emergere di questa teoria è probabilmente una delle cause principali di frattura interne al giovannismo. Certo, la distruzione del Tempio deve avere giuocato un ruolo fondamentale, ma sarebbe un errore pensare che quel fatto, benché rilevante, fosse la causa unica. Sappiamo che è possibile una religiosità del Tempio anche senza Tempio, come dimostra la prima letteratura rabbinica, e sappiamo che a Qumran si pervenne e prescindere dal Tempio anche quando il Tempio era ancora in funzione.

(d) Altri esempi si potrebbero aggiungere. Quello del sabato, anzitutto. Il redattore del vangelo aggiunge una giustificazione teologica radicale ignota al resto della prima tradizione cristiana: «il Padre mio opera sempre e anche io opero» (5,17). Se questa frase sta a giustificare, agli occhi del lettore, mediante una parola autorevole di Gesù, il comportamento dei giovannisti dei tempi del redattore che avevano smesso di osservare il sabato, allora saremmo in presenza di uno dei sintomi più importanti che ci mostrano che il giovannismo era ormai uscito dal giudeo-giovannismo. È solo, infatti, quando le idee prendono corpo in una precisa prassi di un preciso gruppo che esse cessano di essere delle ipotesi e delle possibilità astratte e si tramutano in esistenza storica. Fino a quel momento sono solo fantasie di singoli. Con la sola storia delle idee non si ricostruisce la storia dei fenomeni religiosi. La giustificazione teologica di Gv 5,17 sembra essere indirizzata a convincere i giudeo-giovannisti della bontà di una prassi che andava contro la più consolidata delle usanze giudaiche. Anche qui abbiamo perciò con tutta probabilità un'evoluzione da un normale rispetto del sabato ad un tipo di organizzazione comunitaria che sembra caratterizzarsi come un gruppo religioso a tendenza universalistica al di fuori della Terra di Israele o comunque al di fuori di un ambiente giudaico. In ogni caso, siamo in presenza di una svolta fondamentale tra giudeo-giovannismo e giovannismo.

3. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Ci sia permessa una breve osservazione per concludere. Questo studio lascia completamente da parte due aspetti che sarebbero importanti anche per il nostro tema e cioè la diversità di Giovanni rispetto al resto della tradizione evangelica e il fatto che Giovanni presenti una religiosità che ha caratteri molto affini a certi asepetti della religiosità ellenistico romana. Questi due aspetti permetterebbero di connotare meglio le diverse fasi del giovannismo. Ad esempio, le esigenze radicali di abbandono della famiglia, dei beni e del lavoro, così importanti per la sequela sinottica sono del tutto assenti in Giovanni, in cui, peraltro, acquista un ruolo positivo quella della famiglia di Gesù. Per altro verso, l'insistenza sul contatto diretto con Dio, sulla rinascita e sull'iniziazione spingono Giovanni verso una religiosità ellenistica o forse meglio giudaico-ellenistica. Ma non possiamo qui affrontare questi due vasti campi.

Il fatto ovvio, che tuttavia mi sembra venga troppo trascurato, è che i seguaci di Gesù vissero la loro adesione a Gesù all'interno delle forme religiosi giudaiche consuete. Quando parlo di forme religiose penso alla preghiera, al pellegrinaggio, ai riti quotidiani, alle forme di aggregazione socio-religiosa, ma anche alle istituzioni. La ricerca recente ha posto l'accento giustamente sulla pluralità di giudaismi del I secolo. Da questo punto di vista, si è voluto polemizzare anche contro l'idea di un giudaismo normativo, nel senso che in una situazione di accentuato pluralismo non esisterebbe un giudaismo più giudaico degli altri, tale da imporsi come normativo. In realtà, la questione non va posta in questi termini perché, quando si parla di molti giudaismi, non si deve pensare semplicemente ad una pluralità di concezioni. I fenomeni religiosi non debbono essere ridotti solo alle idee. Per la comprensione dei fenomeni religiosi è necessario un modello interpretativo più complesso e articolato. La società religiosa della Terra di Israele del I secolo non è il risultato di un insieme di correnti di pensiero. La sua struttura è data anzitutto da istituzioni le quali, per definizione, sono comuni a tutta una società. Esistono, poi, movimenti o comunità religiose ed esse si differenziano tra loro proprio ed anche nel modo con cui partecipano alle istituzioni. Quelle che negano alcune delle istituzioni principali e non vi partecipano sono le più settarie, le più introverse e che maggiormente si isolano dal resto della società o che al contrario mirano ad una radicale rivoluzione di essa. La maggioranza delle altre comunità o movimenti partecipa, invece, dall'interno alle istituzioni, cercando di trasformarle in base alla propria visione delle cose. Il reticolo istituzionale religioso della società giudaica in Terra di Israele non costituisce perciò né un giudaismo normativo, né un giudaismo comune, consistente in una serie di concezioni, bensi strutture organizzative che ciascuno viveva, per certi aspetti, in modi volta a volta diversi. Tuttavia, ciascun movimento o comunità ha sempre anche sue proprie forme religiose, sue proprie istituzioni che stanno in dialettica non necessariamente oppositiva con quelle della società più ampia. Così, ad esempio, un movimento religioso cattolico di oggi ha sue strutture organizzative ed istituzionali interne, pur partecipando alle situazioni religiose cattoliche generali (ad esempio, la parrocchia, la diocesi, ecc.). Bisogna rendersi conto che l'entrare in un gruppo giudaico particolare, e perciò il partecipare ai suoi riti particolari, non implicava di per sé l'uscire o l'essere espulsi dalla società religiosa più ampia cui si continuava ad appartenere. Affinché l'uscita o l'espulsione avvenisse erano necessarie determinate condizioni. Le concezioni religiose sono uno dei fattori della mobilità religiosa, ma divengono realtà sociale solo quando sono unite a pratiche sociali e modi di organizzare comunità. Quando rimangono semplici idee possono essere differentemente usate dai diversi movimenti, ma non caratterizzano una formazione sociale. I seguaci di Gesù di tendenza giovannista hanno vissuto nelle istituzioni religiose generali e in esse hanno incontrato altri giudei di diversa tendenza. È sullo sfondo della comune partecipazione alle istituzioni che va compreso il loro rapporto dialettico con il resto della società religiosa giudaica e con il resto dei movimenti di allora e con le concezioni che circolavano più o meno trasversalmente.

(dal sito di Mauro Pesce)



lunedì 7 settembre 2009

Perchè una ricerca storica su Gesù è necessaria?

Mauro Pesce

Alcuni apologeti di oggi sostengono che la figura storica di Gesù sarebbe già facilmente accessibile a chiunque nel Nuovo Testamento. I vangeli canonici sarebbero documenti storicamente attendibili perché ispirati da Dio. Non ci sarebbero contraddizioni fra di essi, perché le loro diversità sono soltanto da coordinare in un'immagine armoniosa. L'interpretazione teologica della figura di Gesù che i concili di Nicea e di Calcedonia hanno formulato dogmaticamente nel IV e nel V secolo sarebbe infine perfettamente fedele alle idee religiose già chiaramente contenute nei vangeli canonici e nel resto del Nuovo Testamento. Per questi motivi non si dovrebbe ricercare una fisionomia storica di Gesù diversa da quella che emerge dall'armonizzazione dei quattro vangeli canonici ottenuta alla luce della teologia del Nuovo Testamento, interpretato sulla base della teologia dogmatica della chiesa antica, nuovamente compresa alla luce della teologia della attuale chiesa cattolica.

Anzitutto, non è affatto necessario ricorrere a queste affermazioni per restare all'interno della fede cristiana. Queste affermazioni sono semplicemente frutto di una teologia restauratrice, antimoderna e tendenzialmente fondamentalista che non può essere identificata tout court con la fede cristiana. Ma questo è per me in fondo secondario. Sono contrario a queste affermazioni non per motivi religiosi, ma semplicemente perché non sono attendibili storicamente. Ciò che voglio qui sottolineare è che si tratta di tesi storicamente indifendibili nell'attuale panorama della ricerca storica.

  1. Il Nuovo Testamento non esisteva nel I e nel II secolo. Perciò parlare di Nuovo Testamento per ricostruire la figura storica di Gesù è un anacronismo. Non sappiamo quando, ma il Nuovo Testamento non fu fissato prima della fine del III secolo.

  2. Il Nuovo Testamento contiene solo 27 scritti protocristiani, ed esclude una serie non piccola di opere che furono prodotte nel I secolo o agli inizi del II secolo e che sono fonti molto utili per ricostruire la fisionomia storica di Gesù e delle prime comunità dei suoi seguaci (ad esempio il Vangelo di Tommaso, la Didaché, l'Ascensione di Isaia, la Prima Lettera di Clemente, i Vangeli giudeo cristiani, il Vangelo di Pietro e altri vangeli pervenutici frammentariamente).

  3. Nel I secolo i seguaci di Gesù non leggevano insieme i quattro vangeli che furono poi molto dopo inseriti nel Nuovo Testamento. In ogni comunità di seguaci di Gesù non esistevano i quattro vangeli, ma probabilmente un solo vangelo (ad esempio, quello di Pietro, o quello di Tommaso, o quello di Marco e così via).

  4. Nessun vangelo godeva di un'autorità normativa rispetto agli altri.

  5. Nel I secolo e sicuramente almeno fino alla prima meta del II secolo esisteva una ricca e molteplice tradizionale orale su Gesù che veniva considerata molto autorevole.

  6. Nessuno dei vangeli considerati poi canonici era considerato più autorevole delle tradizioni orali che continuarono per molto a sussistere nella chiesa antica. Papia di Hierapolis sostiene verso il 120 che erano per lui più autorevoli le tradizioni orali dei testi scritti.

  7. Normative erano considerate le sacre Scritture giudaiche.

  8. Siccome le comunità dei seguaci di Gesù non erano separate dalle comunità dei Giudei, esse continuavano ad usare una serie di opere giudaiche anteriori o anche prodotte nel primo secolo. Ad esempio è molto probabile che il vangelo di Giovanni conoscesse l'Apocalisse di Abramo.

  9. Non è vero che le opere contenute nel Nuovo Testamento sono certamente più antiche di tutti gli altri scritti protocristiani. Ad esempio, le lettere pastorali e quelle attribuite a Pietro sono piuttosto tarde.

  10. La ricerca degli ultimi trent'anni circa ha mostrato che i quattro vangeli canonici non costituiscono la base utilizzata da tutti gli altri vangeli e da tutte le altre opere che poi non furono incluse nel canone neotestamentario. La Didachè non dipende dal Vangelo di Matteo. Le affinità tra Matteo e Didachè dipendono dal fatto che ambedue hanno utilizzato tradizioni comuni e antecedenti. Il Vangelo di Tommaso alcune volte dipende dai vangeli sinottici attuali, ma altre volte no. I Vangeli giudeo cristiani (degli Ebrei, dei Nazareni, degli Ebioniti) non sono una riscrittura dei sinottici, ma opere molte volte indipendenti. La Prima e la Seconda lettera di Clemente e Giustino contengono diverse volte formulazioni di parole di Gesù che sono indipendenti da quelle dei vangeli sinottici. Il Vangelo di Giovanni è difficilmente comprensibile senza un dibattito con tradizioni che confluiscono nel vangelo di Tommaso e senza la conoscenza della Visione di Isaia oggi contenuta nell'Ascensione di Isaia.

(brano tratto da un articolo che sarà pubblicato in un libro dall'editore Carocci di Roma nell'autunno del 2008 in cui scrivono anche diversi altri autori)



domenica 6 settembre 2009

Gesù e il sacrificio ebraico


di Mauro Pesce

PREMESSA: RELIGIONI NON SACRIFICALI PRIMA DEL CRISTIANESIMO


Quando si affronta il tema del sacrificio nei testi protocristiani (e in particolare in quelli che le chiese ad un certo momento raccoglieranno nella collezione canonica chiamata Nuovo Testamento) bisogna liberarsi dall'ipotesi che il primissimo cristianesimo rappresenti, a differenza dal Giudaismo, un nuovo tipo di religione che proclama per la prima volta la fine dei sacrifici animali e l'inaugurazione di un nuovo tipo di religiosità imperniato sul «sacrificio» di Cristo. Ciò non corrisponde alla realtà dei fatti. Anzitutto, già prima della distruzione del Secondo tempio di Gerusalemme, l'ebraismo in alcune sue correnti, e cioè a Qumran, come dimostra La regola della comunità, aveva già elaborato una religiosità che faceva a meno della pratica di sacrifici animali e che prevedeva forse di non farne uso anche nella Terra di Israele purificata e restaurata di cui il gruppo sognava l'avvento (1QS VIII,4-6; IX,4-5). In secondo luogo, un sistema religioso ebraico senza sacrifici animali si realizza nel II secolo dell'Era Volgare con il rabbinismo, dove lo studio della Torah e la costruzione di un popolo che viva in condizione di purità sacerdotale costituisce una mutazione rispetto all'antica religione del tempio e dei sacrifici. Infine, da molto tempo prima dell'inizio dell'Era Volgare, l'ebraismo della diaspora, pur conservando un legame molto forte con il tempio di Gerusalemme e con l'uso di pellegrinaggi periodici a Gerusalemme (cf., ad es., Giuseppe, Ant. XVI, 162-163) praticava una religione in cui si faceva per lo più a meno di sacrifici animali. Non bisogna, poi, dimenticare che vaste correnti del mondo antico manifestavano una critica sostanziale al sistema sacrificale delle religioni tradizionali, come ad esempio il pitagorismo. Certo, in questi casi, si tratta di forme religiose che, pur rinunciando ai sacrifici animali, assegnano un ruolo centrale alla metaforizzazione del sacrificio in tutta la sua complessità, o alla sua sostituzione mediante forme ritenute in qualche modo equivalenti e inveranti. Questo mantenimento dello schema culturale sacrificale anche in assenza di sacrifici, o del sacrificio in forma metaforizzata, deve essere tenuto molto presente per non rappresentare la realtà storica in modo semplificante e alla fine mistificante.

II. UNA DEFINIZIONE DI “SACRIFICIO”

È ovvio che, parlando in questi termini, io presuppongo un concetto di «sacrificio» che va perciò esplicitamente esposto. Io adotto la definizione offerta da C.Rivière. La definizione di Rivière è quella di un «idéaltype» costruito in base ai dati emersi da una vasta analisi comparativa di molteplici culture diverse. Dalla comparazione, secondo Rivière, emerge l'impossibilità di verificare la presenza “d'éléments absolument universels et constants”, per cui il tipo ideale deve essere costruito “à partir des fréquences majeures de traits observés et d'interprétations attestées”. In sostanza, si tratta di quello che con P. Burke, potremmo definire un modello politetico, un modello cioè che presenta una costellazione di elementi che tuttavia non si verificano sempre tutti nei singoli casi. Ecco, dunque, la definizione di Rivière:

«Le sacrifice est une action symbolique de séparation, de détachement et d'offrande d'un bien ou de soi-même, en signe de soumission, d'obéissance, de repentir ou d'amour, qui noue de manière dynamique des rapports asymétriques entre des instances surnaturelles sollicitées et la communauté humaine par l'intermédiaire d'un sacrifiant et d'une victime. Il suppose un acte coûteux, une privation en hommage à une entité spirituelle, donc désir de communication, et se traduit par l'offrande abandonnée, par la mortification personelle et fréquemment par l'immolation d'une victime animale suivie d'un repas communiel comme conclusion des procédures rituelles comprenant des purifications et des prières, et comme acte unificateur, l'homme étant dans le repas l'hôte invité de son dieu».

Dato, però, che questa definizione è un modello politetico, bisognerà esaminare in che modo essa si possa applicare al sacrificio ebraico. Solo dopo avere compreso la natura del sacrificio ebraico, sarà possibile comprendere la continuità o la discontinuità tra prassi sacrificale ebraica e concezioni e prassi gesuane o cristiane. Soprattutto, bisognerà comprendere il sacrificio ebraico all'interno delle categorie della cultura ebraica in cui si sviluppa e non a partire da una concezione cristiana del «sacrificio». Il fatto che la morte di Gesù Cristo sia a volte concepita come sacrificio per l'espiazione dei peccati induce a pensare che tale sacrificio sia sostitutivo dei precedenti sacrifici ebraici e a ritenere perciò che il significato e la funzione dei sacrifici ebraici sia la medesima del sacrificio di Cristo. Scrive Tertulliano nel De Oratione 28,1:

«Haec est enim hostia spiritalis, quae pristina sacrificia deleuit» (cf. anche Adv Iudaeos 6,1 e 13,122).

Ciò che voglio sostenere è che non si può definire il sacrificio ebraico a partire da questa contrapposizione che tende a pensare la morte di Cristo come «sacrificio» e a considerarla come sostituto dei sacrifici ebraici. In questo modo, infatti, si elabora un concetto di sacrificio modellato sulla morte di Cristo e poi con questo concetto cristiano di sacrificio si interpretano i sacrifici ebraici definendoli come «sacrifici» nella misura in cui riflettono ciò che è essenziale nel «sacrificio» di Cristo. Il sistema religioso principale a cui Gesù fa riferimento è senza alcun dubbio quello dei Giudei della terra di Israele, nonostante non si debba affatto trascurare la possibilità che l'ellenizzazione e la romanizzazione di quel territorio abbiano comportato un influsso su Gesù di altri elementi culturali. È anche vero che la Terra di Israele del I secolo presenta una molteplicità di giudaismi, verità ormai scontata e che le rappresentazioni di Flavio Giuseppe stanno sempre a ricordarci. Ma in questi diversi giudaismi dobbiamo distinguere comunità, gruppi e movimenti organizzati, da tendenze o temi di pensiero religioso. Dobbiamo, però, tenere presente che la differenziazione tra comunità e movimenti si originava in un diverso rapporto dialettico con le principali istituzioni religiose e in particolare con il Tempio di Gerusalemme. Si ha a volte l'impressione che alcune rappresentazioni recenti della pluralità dei giudaismi non si rendano conto che la pluralità di movimenti e comunità nasce in rapporto dialettico con una situazione condivisa la cui ossatura è rappresentata e condizionata dalle istituzioni. È perché le istituzioni non esprimono più i bisogni emergenti di una società che nascono conflitti con esse e si formano nuove aggregazioni per rispondere ai nuovi bisogni. Queste nuove aggregazioni cercano a volte di conquistare le istituzioni trasformandole in quegli aspetti che giudicano insoddisfacenti. A volte, invece, cercano di costruire nuove istituzioni o addirittura di isolarsi da esse. Riforma o rivoluzione, eresia settaria o apostasia sono i quattro esiti estremi di questo rapporto dialettico. Non ci dobbiamo immaginare una polverizzazione senza centro, ma una costellazione di movimenti, comunità, gruppi e correnti, in relazione dialettica con l'ossatura istituzionale della società della Terra di Israele. Il riconoscimento della pluralità dei giudaismi non è perciò in contrasto con il riconoscimento di un sistema istituzionale rispetto al quale i diversi movimenti, comunità, gruppi stanno in rapporto più o meno dialettico. Di questo sistema istituzionale, il Tempio era uno dei cardini principali. Se vogliamo, perciò, conoscere l'atteggiamento di Gesù rispetto a quei complessi rituali religiosi che oggi spesso vengono classificati sotto il concetto di sacrificio, dobbiamo riferirci non ai sacrifici in generale, ma ai sacrifici del Tempio di Gerusalemme. Il modo corretto per impostare la questione è domandarsi a cosa servivano e cosa esprimevano i sacrifici del tempio di Gerusalemme o, meglio, che cosa pensava Gesù, e cosa si pensava in quel tempo, che essi servissero ed esprimessero. Per sapere questo, non bisogna presupporre una concezione influenzata da una o dall'altra corrente del cristianesimo che deformi il sacrificio biblico ebraico o lo consideri da quei particolari punti di vista che sono interessanti per la prospettiva di quella particolare corrente o teologia cristiana che l'interprete cristiano condivide. Non dovremo perciò partire dalla concezione di Paolo o dalla Lettera agli Ebrei, né da Tertulliano, Origene o Agostino. Dovremo partire dalla Bibbia Ebraica, da Qumran e da Flavio Giuseppe (Ant III, 224-243) e, in misura minore, non trattandosi di giudaismo della Terra di Israele, da Filone.

III. I SACRIFICI EBRAICI

I sacrifici ebraici e i peccati involontari

Secondo il Levitico, esistono categorie diverse di sacrifici che servono per scopi diversi. Nei capitoli 1-7 del Levitico appaiono i seguenti tipi di sacrificio: 'olâ, cioè innalzamento o olocausto; qorban minhâ, cioè offerta di cereali; hatta't, cioè offerta per il peccato; 'asam, cioè offerta per la colpa; selamim, cioè immolazione di comunione o di pace. Nei capitoli 12-15 appaiono altri sacrifici che hanno essenzialmente la funzione di sanzionare la purificazione di chi ha subito contaminazioni corporee. Fra tutti questi tipi di sacrificio solo uno ha a che fare con i peccati, il hatta't. Perciò è un grave errore ritenere che il rifiuto dei sacrifici nel caso del giudaismo abbia a che fare necessariamente con la volontà di instaurare un diverso meccanismo per l'espiazione dei peccati. Un punto fondamentale, poi, è che il sacrificio per il peccato (quello chiamato hatta't) del tempio di Gerusalemme non serve per espiare i peccati volontari, ma solo quelli involontari (Lev 4,1.13.22.27; 5,17). Per le trasgressioni volontarie non sono previsti sacrifici. Esse sono invece sottoposte alla legge civile o alla punizione divina. Come scrive J.Milgrom, «A deliberate, brazen sinner is barred from the sanctuary (Num 15:30-31). Presumptuous sins are not expiable but are punished with karet-excision». Ciò significa che l'espiazione mediante sacrificio è possibile solo per le trasgressioni involontarie. Il Levitico esprime l'involontarietà della trasgressione con l'espressione bisegagâ (ki teheta' bisegagâ = «se trasgredirà involontariamente» Lev 4,2; cf. 4,13.22.27). Essa indica, secondo Milgrom, un atto che «manca di intenzione». Si tratta cioè di quegli atti in cui il trasgressore sa bene che una determinata azione è vietata, ma la compie senza accorgersene. L'espressione perciò non indica quelle trasgressioni che si compiono intenzionalmente, senza sapere che quella determinata azione è vietata dalla legge. Nel primo caso abbiamo la consapevolezza della norma, ma la mancanza di intenzione nella trasgressione. Nel secondo, la volontarietà dell'azione, ma la non consapevolezza della norma. La distinzione tra volontario e involontario non è una distinzione moderna che immette nel testo concezioni che presuppongono la distinzione tra etica e rito. Da circa dieci anni io sostengo che non si può opporre rito ad etica. Non sono io a introdurre la distinzione tra volontario e involontario, ma il testo del Levitico. La traduzione ebraica della Jewish Publication Society ha tradotto bisegagâ con il termine inglese «unwittingly» («when a person unwittingly incurs guilt»). Gli Ebrei che tradussero in greco il Levitico (traduzione dei Settanta) usarono l'avverbio greco akousios (Lev 4,2 LXX). J.Milgrom, nel suo commento al Levitico, sostiene che il sacrificio hatta't è essenzialmente un sacrificio «purificatorio» che ha per scopo di purificare i luoghi santi del tempio («the sanctuary and its sancta» ) e non l'offerente: «the hatta't never purifies its offerer [...] its use is confined to the sanctuary, but it is never applied to a person». Levine lo dice chiaramente fin dall'inizio del suo commentario al Levitico:

«It should be emphasized [...] that the laws of the Torah did not permit Israelites to expiate intentional or premeditated offenses by means of sacrifice. The was no vicarious, ritual remedy - sostitution of one's property or wealth - for such violations, whether they were perpetrated against other individuals or against God Himself. In those cases, the Law dealt directly with the offender, imposing real punishments and acting to prevent recurrences. The entire expiatory system ordainded in the Torah must be understood in this light. Ritual expiation was restricted to situations where a reasoneable doubt existed as to the willfulness of the offense. Even then, restitution was always required when loss or injury to another person had occurred. The mistaken notion that ritual worship could atone for criminality or intentional religious desecration was persistently attacked by the prophets of Israel, who considered it a major threat to the entire covenantal relationship between Israel and God ».

Quale è allora lo scopo dei sacrifici se non è quello di espiare i peccati volontari? È quello di purificare il tempio mediante il sangue, di togliere cioè la contaminazione provocata dal peccato involontario. Il principio per il quale il sangue opera la rimozione dell'impurità è espressa in Lev 17,11:

«Perché la vita della carne è nel sangue e io ve l'ho dato sull'altare per operare la rimozione (lekapper) per le vostre vite. Perché è il sangue che rimuove (jekapper) perché è vita»

L'ebraico esprime l'atto sacerdotale con il verbo kipper che viene spesso tradotto con «espiazione», ma il concetto di espiazione non corrisponde esattamente alla concezione del Levitico alla quale è più adeguato il concetto di rimozione. Il sangue ha un potere abrasivo, purificante. In altre parole, la rimozione dell'impurità richiede l'immolazione di un essere vivente. Il ristabilimento si ottiene poi portando o più precisamente avvicinando (qrv) una offerta all'altare. Per riflettere la concezione ebraica sarebbe meglio non usare la parola «sacrificio» (calco del latino e veicolo di una concezione culturale diversa da quella ebraica), bensì avvicinamento, che - a mio avviso - è la traduzione corretta del sostantivo ebraico corrispondente, qorban:

«se una persona [...] peccherà contro qualsiasi comandamento del Signore [...] porterà (alla lettera: avvicinerà, hiqrîb) al Signore ...» (Lev 4,2-3).

Quando l'immolazione sacrificale dell'animale è eseguita per il peccato involontario, il meccanismo che il Levitico contempla e che ripete esplicitamente molte volte è il seguente:

«il sacerdote farà la rimozione (kipper) per essi, e sarà loro perdonato (nislah)» (Lev 4,20.26.31.35; 6,6.10.13.18.26, ecc).

Con il sangue, il sacerdote rimuove, gratta via (kipper), l'impurità e perciò purifica. L'azione di Dio, successiva a quella del sacerdote, è quella di perdonare («e sarà loro perdonato, nislah»). Il presupposto che rende possibile l'attribuzione del perdono all'offerente, nonostante che la rimozione sia avvenuta grazie al sangue dell'animale, è che vi sia un'identificazione tra l'animale a cui viene tolto il sangue e l'offerente. Il Capitolo 5 del Levitico presenta una serie di casi in cui sembra venir meno il principio generale secondo il quale i sacrifici servono per espiare solo i peccati involontari (Lev 5, 1-4; 21-25). Infatti, Lev 5, 1-4 parla certamente di peccati volontari (quando uno non denuncia un giuramento che sa essere falso; quando non si purifica da contaminazione che sa di avere contratto; quando proferisce un giuramento falso). Lev 5, 21-26 prevede il caso in cui una persona, dopo avere giurato falsamente di non aver ricevuto da un'altra persona un deposito o di avere trovato un bene appartenente ad altra persona, si pente e confessa la propria trasgressione. Per tutti questi casi, il Levitico prescrive sacrifici espiatori. Sembra perciò a tutta prima non essere vero che i sacrifici non espiano i peccati volontari. In realtà, secondo la spiegazione di Milgrom e di Levine, ciò che rende possibile l'espiazione mediante sacrificio non è la volontarietà della trasgressione, bensì la confessione pubblica del peccato volontario che viene richiesta necessariamente in tutti questi casi. La confessione pubblica si richiede solo per peccati volontari, mentre per quelli involontari non è richiesta. La funzione della confessione pubblica è infatti di trasformare i peccati volontari in peccati involontari, rendendone così possibile l'espiazione mediante sacrificio:

«For involuntary sins, 'asam or remorse alone suffices: it renders confession superfluous. For deliberate sins, however, confession is demanded over and above remorse. But what function does confession serve? Why must contrition of the heart be augmented by the confirmation of the lips? Confession must, then, play a vital role in the judicial process. Because it only occurs when deliberate sin is expiated by sacrifice, the conclusion is ineluctable: confession is the legal device fashioned by the Priestly legislators to convert deliberate sins into inadvertences, thereby qualifying them for sacrificial expiation».

Yom ha-kippurim

Un discorso diverso va fatto per il rito di Yom ha-kippurim. È vero che esso appare ad alcuni studiosi avere solo la funzione di purificazione del tempio. Come scrive Levine, «The primary objective of expiatory rites like the ones set forth in chapter 16 was to maintain a pure sanctuary. An impure, or defiled, sanctuary induced God to withdraw His presence from the Israelite community». Levine suppone che le trasgressioni che contaminano siano quelle per le quali un ebreo è divenuto impuro grazie ad un contatto con una fonte di impurità. I peccati morali quindi non contaminerebbero. La contaminazione avviene solo per contatto con una fonte di impurità. «The greatest threat to the purity of the sanctuary came from the priesthood itself, whose members functioned within its sacred precints [...]. The sanctuary was also threathened by major transgressions of the laws of purity involving the entire Israelite community or by the failure of individual Israelites to attend to their own purification - for example, after contamination by a corpse. This occurred because such serious impurities were considered to be contagious and thereby ultimately affected the sanctuary, which was located within the area of settlement». Mi sembra tuttavia più adeguata l'interpretazione di J.Milgrom nel commento a Lev 16,16 e 16,21. In Lev 16,16 leggiamo:

«E detergerà (kipper, Milgrom traduce «shall purge») il santuario dalle impurità dei figli di Israele e dalle loro trasgressioni (pesa'îm), circa tutti i loro peccati; e così farà per la tenda dell'incontro, che abita con loro nel mezzo delle loro impurità».

Nel commento, giustamente, Milgrom pone in luce il fatto che i pesa'îm sono i peccati volontari e sono quelli più terribili: «The noun pesa' means 'rebellion' and its verb, pasa', 'rebel'. Its usage originates in the political sphere, where it denotes the rebellion of a vassal against his overlord (e.g., 1 Kgs 12:19; 2 Kgs 1:1; 3:5,7; 8:20,22); by extension, it is transferred to the divine realm, where it denotes Israel's rebellion against its God (e.g. Isa 1:2; 43:27; Jer 2:8; 33:8). Thus it is the term that characterizes the worst possible sin: open and wantom defiance of the Lord. According to the priestly scheme, it is this sin that generates the impurity that not only attacks the sanctuary but penetrates into the adytum and pollutes the kapporet, the very set of the godhead». Milgrom aggiunge: «It should be further be noted that as intention plays no part in the creation of physical impurities [...] the term pesa'îm must be directed solely to the pollution generated by Israel's moral violations».

In Lev 16,21 leggiamo:

«Aronne appoggerà ambedue le sue mani sulla testa del capro vivo e confesserà su di esso tutte le iniquità e le trasgressioni dei figli di Israele, circa tutti i loro peccati, e li porrà sulla testa del capro; ed esso sarà inviato nel deserto da un uomo apposito».

Commentando il versetto, Milgrom chiarisce bene che il sacrificio hatta't serve nel rito di Yom ha-kippurim solo per purificare il santuario, mentre il capro vivo inviato nel deserto serve per eliminare i peccati del popolo:

«the sacrificial animals of Lev 16 [...] suffice to purge the sanctuary. This leaves the live goat to function in an entirely different sphere: the elimination of Israel sins». «The live goat has nothing to do with the sanctuary's impurities, but, as the text emphatically and unambiguously states, it deals with 'awônôt 'iniquities' - the causes of the sanctuary's impurities, all of Israel's sins, ritual and moral alike, of priests and laity alike».

Milgrom continua:

«The creative contribution of the Priestly legists consisted of first adding a purification-offering bull for the priestly house and, more importantly, confining the sanctuary's purgation to the action of the purification-offering blood (on the model of 4:3-21), thereby freeing the live goat, as demostrated by the high Priest's confession, for focusing exclusively on the elimination of Israel's 'awônô its sins».

In realtà, ignoriamo il contenuto della confessione dei peccati levitica. Conosciamo solo quella del molto più tardo trattato Yoma della Mishnah. Questa confessione che si trova in Yoma è chiaramente più tarda perché cita esplicitamente il versetto 16 di Lev 16 e perciò presuppone una espiazione anche dei peccati volontari. Il contrasto con l'interpretazione di Levine è veramente ampio, radicale. Basti confrontare il commento di Levine a Lev 16,16 e 16,21. Levine presuppone per il Levitico una concezione arcaica del peccato: «Ancient peoples believed that sinfulness, like impurity, was an external force that had clug to them; it was necessary, therefore, to "drive out", or detach, sins». Milgrom ritiene, invece, che già i redattori del testo attuale del Levitico abbiano introdotto una modifica nella concezione antica mediante la sottolineatura della volontarietà dei peccati. Questa novità, tuttavia, non modifica la concezione del sacrificio, il quale serve sempre per la purificazione del Tempio. I peccati volontari del popolo vengono invece portati via nel deserto dal secondo capro, quello che viene lasciato andare vivo e che perciò non costituisce un sacrificio. Qui Milgrom presuppone che il sacrificio ebraico sia quel rito per il quale viene ritualmente immolata nel Tempio una vittima per ottenere il sangue con il quale purificare determinati luoghi del Tempio stesso, luoghi che costituiscono i principali punti di avvicinamento alla divinità. L'invio di un capro vivo nel deserto non rientra nelle classificazioni dei rituali sacrificali ebraici perché l'animale non è immolato né nel Tempio né altrove e il suo sangue non è utilizzato per l'aspersione di particolari luoghi del Tempio. Cosicché è per Milgrom legittimo concludere che l'espiazione dei peccati volontari del popolo nel rito di Yom ha-kippurim non avviene mediante sacrificio. In ogni caso, il trattato Yoma della Mishnah nel cap. 8 testimonia una concezione molto diversa di Yom ha-kippurim in cui il rito ha per scopo il perdono da parte di Dio anche dei peccati volontari e insiste molto sulla tesuvâ come condizione necessaria per ottenere il perdono. Anche Levine ammette la possibilità di una evoluzione nella comprensione storica del rito quando scrive: «This ancient view of Yom Kippur is somewhat different from that which came to predominate in 70 C.E. Atonement for the sins of the people eventually replaced the purification of the sanctuary per se as the central theme of Yom Kippur. This shift of emphasis is already suggested in verse 30: 'For on this day atonement shall be made for you to cleanse you of all your sins; you shall be clean before the Lord'. The purification of the sanctuary was understood to extend to the people - to relieve them of their transgressions as well. However, no ritual of purification was actually performed over the people, as was the case on other occasions ». Quest'ultima osservazione di Levine mi sembra di rilevante importanza. Essa mette in luce il fatto che il rito di Yom ha-kippurim aveva delle debolezze o delle incoerenze sistemiche. Esso, come del resto capita spesso in ogni azione sociale complessa, lasciava irrisolti alcuni dei problemi rituali centrali relativi allo scopo sistemico del rito (che, come abbiamo più volte ripetuto, era la remissione dei peccati volontari). Fra tutti gli aspetti connessi a quello scopo fondamentale: conversione interiore, compensazione sociale delle offese, perdono da parte di Dio, purificazione dei lunghi contaminati del Tempio, purificazione del corpo del peccatore, sembra che rimanesse senza risposta, secondo l'osservazione di Levine, la purificazione del popolo perché «no ritual of purification was actually performed over the people». Cioè, mentre l'aspersione del sangue era un rito che purificava i luoghi sacri del tempio, non era previsto un rituale di purificazione che si operasse direttamente sulle persone. È ragionevole ipotizzare, io credo, che questa carenza dell'azione rituale potesse suscitare insoddisfazione, incertezza, o addirittura il bisogno di azioni rituali alternative. In ogni caso, il rito di Yom ha-kippurim sembra potesse lasciare irrisolto il problema che intendeva invece risolvere: quello di una completa eliminazione dei peccati volontari e delle loro conseguenze personali, sociali e cosmiche. Anche Milgrom è consapevole della differenza tra purificazione del tempio e purificazione del popolo che si fa luce ai vv. 30 e 31 di Lev 16. Scrive così Milgrom: «The purgation rites in the sanctuary purify the sanctuary, not the people. Yet as the sanctuary is polluted by the people's impurities, their elimination, in effect, also purifies the people [una spiegazione, questa, che non mi sembra così evidente e convincente]. The reference to purification could also be to the scapegoat, which expressely carries off the people's sins into the wilderness (v. 24). To be sure, purity is effected by the elimination of impurity (12:8; 14:7,9,20,31; 15:13,28). Instead, it is the people's participation in this day through their self-purgation that is probably meant [...]». Milgrom fa riferimento al v.31 dove si insiste sulla auto-umiliazione che secondo lui sarebbe l'elemento innovante del testo del Levitico rispetto alla precedente tradizione. Quindi qui Milgrom ipotizza con incertezza una «self-purgation» mediante il «self-denial» previsto dal v.31. In ogni caso, Milgrom intende la purificazione del popolo di cui parla il versetto 30 come metaforica («this metaphoric use of tiher is another sign of the authorship of H»). È francamente impressionante notare come su questo problema cruciale Milgrom ci offra tre ipotesi: (a) la purificazione del popolo potrebbe essere stata operata dalla purificazione delle impurità del popolo operata dalla purificazione del tempio («as the sanctuary is polluted by the people's impurities, their elimination, in effect, also purifies the people») oppure (b) potrebbe essere operata dal fatto che il capro inviato vivo nel deserto porta con sé i peccati del popolo («The reference to purification could also be to the scapegoat, which expressely carries off the people's sins into the willderness»), oppure (c) potrebbe essere operata dalla auto-umiliazione del popolo e perciò essere una auto-purificazione («it is the people's participation in this day through their self-purgation that is probably meant»). Il brano di Is 58,3-7 è un'ulteriore conferma del fatto che il rito di Yom ha-kippurim potesse presentare delle incoerenze sistemiche lasciando irrisolti alcuni aspetti religiosi fondamentali:

«Perché quando abbiamo digiunato tu non hai guardato? Quando abbiamo afflitto i nostri corpi tu non hai dato ascolto? Perché nel vostro giorno di digiuno voi fate i vostri affari e opprimete tutti i vostri servi. Perché voi digiunate nel litigio e nella contesa e percuotete con un pugno empio, il vostro digiuno oggi non è tale da far ascoltare la vostra voce nell'alto. È questo il digiuno che io desidero? Un giorno per umiliare il proprio corpo? Curvare la testa come un giunco sdraiarsi sul sacco e sulla cenere. Tu chiami questo un digiuno un giorno quando il Signore è favorevole? Il digiuno di cui mi compiaccio non è questo. Che si spezzino le catene della malvagità che si sciolgano i legami del giogo che si lascino liberi gli oppressi e che si infranga ogni sorta di giogo. Non è forse questo? Che tu divida il tuo pane con chi ha fame che tu porti a casa tua gli infelici senza asilo che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne».

Questo brano non deve essere considerato avulso da un preciso contesto religioso, quasi fosse un segmento di teologia biblica, di riflessione astratta per persone fuori da precisi contesti rituali. E' infatti una riflessione critica sul modo con cui veniva praticato il digiuno del rito di Yom ha-kippurim. Come abbiamo visto, Lev 16, 29 prevedeva forme di auto-umiliazione. Isaia 58 sembra perciò andare nella stessa direzione della terza delle possibilità indicate da Milgrom. Sembra cioè presupporre che fosse abbastanza diffusa l'opinione che il digiuno di Yom ha-kippurim avesse una forza 'espiatrice'. Isaia 58 testimonia, infatti, una riflessione sul modo della 'espiazione' in questa ricorrenza perché insiste che non basta il digiuno previsto da Lev 16,29 e 23,26: è necessaria anche una pratica riparatrice di giustizia sociale, fatto che la traduzione dei LXX potrebbe ancora maggiormente sottolineare. Il discorso del testo di Isaia non è contro il digiuno, non va verso l'abolizione di una pratica che la sensibilità spiritualista di oggi considera «esteriore». Tutt'altro. Il senso del testo è che una umiliazione corporea per essere reale deve corrispondere ad una umiliazione complessiva reale. La traduzione dei LXX esprime bene questo concetto con un gioco di parole tra il verbo tapeinoun e il sostantivo tapeinos che evidenzia la contraddizione tra il desiderio di umiliarsi (etepainosamen) e il colpire con pugni il sottoposto socialmente e il povero, il tapeinos. Non si può spiritualizzare l'umiliarsi. Rendersi realmente «tapini» comporta l'eliminazione di quegli atti che rendono gli altri 'tapini', cioè umiliati socialmente. Un digiuno è reale, se viene fatta uguaglianza reale. Un'umiliazione che lasci intatto il rapporto di diseguaglianza e di oppressione non è un'umiliazione. Isaia mi sembra che non contrapponga un'umiliazione interiore ad una esteriore e neanche un aspetto etico ad un aspetto rituale. L'opposizione interiore/esteriore o etico/rituale mi sembra assente da questo testo ed estraneo ad esso. Per il perdono dei peccati nella cerimonia di Yom ha-kippurim non basta l'umiliazione corporea, è necessario anche il ristabilimento della giustizia all'interno del popolo. Ora, sono proprio le norme che mettono in pratica le prescrizioni dei vv. 29-31 di Lev 16 che costituiscono la parte innovante del capitolo 8 del trattato Yoma della Mishnah rispetto al testo di Lev 16. Il trattato, infatti, attribuisce all'auto-umiliazione una funzione importante nell'eliminazione dei peccati volontari nella cerimonia di Yom ha-kippurim. Io credo che bisogna tenere conto di questa complessità del problema rappresentato dai molteplici significati possibili del rito di Yom ha-kippurim. Un rito - come è noto - non ha solo una finalità, ma anche un'espressività. Ciò che un rito esprime a coloro che vi partecipano non si identifica con le finalità che un gruppo religioso dirigente vorrebbe assegnare a quel rito. È l'azione rituale stessa che crea significati per coloro che vi partecipano. Inoltre, come diceva anni fa C.Bell, il modo con cui si entra in un rito è sempre creativo. Dobbiamo sempre prevedere una pluralità di percezioni possibili del significato del rito: esse giacciono già implicite nella sua ricchezza simbolica. Riassumiamo gli elementi sistemici del problema: a) i peccati volontari vanno distinti dai peccati involontari; b) il sangue delle vittime animali toglie dai luoghi sacri del Tempio l'impurità provocata dalle trasgressioni involontarie; c) il rito di Yom ha-kippurim elimina dal Tempio la contaminazione operata anche dalle colpe volontarie; d) le azioni rituali di Yom ha-kippurim operano il perdono dei peccati volontari da parte di Dio, ma non mediante un sacrificio animale, bensì mediante l'invio di un animale vivo nel deserto; e) le azioni rituali di Yom ha-kippurim operano la purificazione anche del popolo, ma non prevedono un rito di purificazione specifico per il popolo; f) l'auto-umiliazione da parte del popolo è un fattore necessario nel rito di Yom ha-kippurim per il perdono dei peccati, ma si discute in cosa essa debba consistere. Alcuni di questi elementi si presentano con caratteristiche non chiare. In particolare, rimane difficile da spiegare a) come sia possibile una purificazione del popolo in assenza di un preciso rituale di purificazione che si eserciti direttamente sul popolo; b) come si trasmetta ai luoghi sacri del Tempio un'impurità provocata dai peccati volontari che non comportano un contatto fisico con fonti di impurità; c) come i peccati volontari che non comportano un contatto fisico con fonti di impurità possano trasmettere un'impurità al corpo dei peccatori la quale debba perciò essere eliminata con un particolare rito. Mi sembra perciò probabile che l'evoluzione delle concezioni e delle pratiche rituali relative all'eliminazione dei peccati scaturisse necessariamente dai rapporti dialettici insiti tra i vari elementi dei complessi rituali previsti dal Levitico e dalla normativa biblica in genere. Nessun sistema è perfetto e statico e la necessità dell'evoluzione non è solo dettata da incursioni improvvise di elementi provenienti da altri sistemi o altre culture, ma nasce anche dai conflitti interni ai sistemi culturali. La distruzione del Tempio di Gerusalemme, e la conseguente impossibilità di compiere sacrifici, non è l'elemento scatenante per la creazione di sistemi espiatori che facciano a meno dei sacrifici, perché – come abbiamo visto - sia i riti sacrificali del Tempio di Gerusalemme, sia quelli connessi di Yom ha-kippurim presentavano aspetti molteplici che lasciavano spazio a innovazioni, istanze riformatrici, interpretazioni divergenti. Sia Levine sia Milgrom riconoscono del resto un'evoluzione storica nella comprensione del valore espiante dei sacrifici che attenuerebbe la distinzione tra peccati volontari e involontari. I fattori interni al sistema che portano all'evoluzione sono a mio avviso insiti (a) nel rito dell'invio del capro vivo nel deserto che testimonia l'esistenza di un meccanismo diverso da quello sacrificale, anche se connesso inscindibilmente ad esso, sono - inoltre - insiti (b) in una certa difficoltà a restringere ai soli peccati involontari la funzione del sacrificio hatta't mentre, infine, da tempo (c) era emersa l'accentuazione del ruolo di una radicale umiliazione e cioè un radicale riorientamento dei rapporti sociali interni al popolo come condizione per il perdono. I testi di Qumran introdurranno un ulteriore elemento: lo spirito santo come fattore di purificazione (1QS III, 3-9); i testi rabbinici daranno maggior rilievo ad un altro elemento ancora: la tesuvâ (mYoma 8,8-9). Uno degli aspetti rilevanti del sistema levitico nasce dal progetto di coordinare due principi sistemici originariamente non coerenti: quello della santità che si oppone alla profanità e quello della purità che si oppone all'impurità. Israele deve muoversi all'interno dei confini simbolici determinati da un lato dalla santità, proprietà di Dio che si concreta nel Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme, e dall'altro dall'impurità che proviene dalle fonti principali di impurità. Israele deve (a) essere santo come Dio è santo, e (b) essere puro. Santificazione e purificazione dall'impurità sono perciò due obiettivi culturali sistemici. Nella Regola della Comunità di Qumran sembra farsi luce una concezione per la quale la fonte della santificazione è lo spirito santo stesso di Dio (1QS III,3-9). A Qumran, infatti, la santificazione non poteva avvenire tramite il rapporto con i luoghi santi del Tempio mentre, d'altra parte, non si poteva porre il problema della purificazione dei luoghi santi del tempio, che era considerato impraticabile. Diventava così fondamentale la ricerca della purificazione del popolo, che secondo il Levitico si otteneva al massimo grado con il rito di Yom ha-kippurim, ma che a Qumran doveva ottenersi in modi del tutto indipendenti dalle pratiche rituali del Tempio. D'altra parte, è presente l'idea che l'impurità possa essere effetto anche di trasgressioni di carattere «morale», cioè di azioni che non comportano il contatto con fonti primarie di impurità.

Filone e Flavio Giuseppe

Una buona sintesi del modo con cui erano percepiti i sacrifici nel periodo dal 63 prima dell'Era Volgare al 66 dell'Era Volgare è offerta da E.P.Sanders. Sanders dedica una trattazione al significato e funzione sia dei sacrifici individuali, sia dei sacrifici comunitari. Circa i sacrifici comunitari, Sanders scrive che «sarebbe stato semplice interpretare gli olocausti giornalieri come espiatori», ma che in realtà né Filone né Giuseppe li intendevano come espiatori. Circa i sacrifici individuali, Sanders scrive: «Il risultato sembra essere stato che le persone non pensavano agli olocausti come a sacrifici anzitutto espiatori». Sia Flavio Giuseppe, sia Filone sono consapevoli che i sacrifici «per il peccato» riguardano trasgressioni involontarie. Tuttavia, prendono in considerazione anche quelle trasgressioni volontarie di cui parla Lev 5,21-26 (di cui abbiamo sopra riportato l'interpretazione di Milgrom e di Levine) e ne fanno una trattazione a parte (Ant III, 230-232; Spec I, 226.235). Sanders sembra ritenere che Flavio Giuseppe non offra una trattazione esauriente e in tutto coerente: «egli considera l'offerta per il peccato del Levitico come un'offerta che espia un peccato involontario, e l'offerta di riparazione (a cui non dà un titolo separato) come un'offerta per una trasgressione volontaria. Questo è in generale corretto, ma egli non spiega che la 'offerta per il peccato' era talvolta non per 'peccati', ma per purificazione. Egli, è naturale, sapeva perfettamente che alcune impurità richiedevano un sacrificio, ma, nel delineare i sacrifici egli non diede una descrizione completa delle finalità di ciascun tipo». «Anche Filone - è sempre Sanders che scrive - sottolinea la differenza tra trasgressioni involontarie e volontarie. Egli inoltre distingue le trasgressioni contro ciò che è sacro da quelle contro altri esseri umani. Nel discutere le trasgressioni volontarie contro il proprio prossimo, egli segue Lev 6 [cioè Lev 5,21-26 secondo la numerazione della Bibbia ebraica] nel rilevare che chi ha offeso deve ripagare tutto ciò che egli ha sottratto ingiustamente, aggiungere un quinto del suo valore, e solo allora andare al tempio per cercare la remissione del peccato». Queste concezioni di Flavio Giuseppe e di Filone non debbono essere addotte per spiegare il senso del testo del Levitico. Ciò sarebbe storicamente scorretto. Esse sono testimonianza solo di opinioni di autori vissuti diversi secoli dopo la redazione di quel testo biblico. Ciò che a me preme sottolineare è che, nel periodo in cui Gesù visse, la discussione del rapporto tra peccati volontari e sacrifici sembra limitato ai casi precisi previsti da Lev 5,21-25. Filone, ad esempio, distingue l'aspetto sacrificale dall'aspetto della riparazione sociale delle frodi previste da quel passo del Levitico: riparazione sociale e sacrificio hanno due percorsi diversi anche se successivi e connessi. Credo anche che sia necessario tenere conto dell'evoluzione successiva nella Mishnah, non tanto per affermare una retrodatazione delle sue concezioni, quanto piuttosto per evidenziare uno degli esiti possibili del problema sistemico posto dall'intreccio di elementi che erano conciliabili solo con uno sforzo. Come scrive Jacob Neusner, nella Mishnah «The cult expiates sin only when the sin is inadvertent; deliberate sin is expiated through the sacrifice of years of life («extirpation»). Then the entire transaction at the altar, so far as the expiation of sin forms the center, concernes those actions that one did not intend to carry out but nonetheless has done». La Mishnah contempla perciò due categorie di peccati: quelli volontari (per i quali non è prevista espiazione sacrificale, ma solo un altro tipo di cancellazione) e quelli involontari (per i quali è richiesti sacrificio) (Keritot 1,2). Il Trattato Keritot prevede anche la presentazione di sacrifici per peccati volontari (2, 2):

«Questi [sono quelli che] portano [un'offerta] per una prevaricazione intenzionale («prevaricazione intenzionale» traduce il sostantivo zadon) come [se fosse] prevaricazione involontaria (kisegagâ): chi si accoppia ad una schiava, il nazireo diventato impuro, per un giuramento in giudizio e per un giuramento circa un deposito».

I casi previsti da Lev 5,21-26 sono considerati dalla Mishnah alla stregua di peccati involontari e per questo si chiede per loro un sacrificio. Mi sembra evidente che la Mishnah, prevedendo la differenziazione netta tra peccati involontari per i quali è necessario sacrificio e peccati volontari per i quali non si richiede sacrificio, bensì un altro sistema espiatorio, riduce la categoria dubbia di Lev 5, 21-26 ai casi di peccati involontari perché il Levitico prevede per essi un sacrificio. Nel momento in cui Gesù appare sulla scena esistevano quindi molteplici tensioni circa le funzioni dei riti sacrificali del Tempio.

III. GESÙ E I SACRIFICI

Gesù e il battesimo di Giovanni Battista

Molto si è detto sul significato sacrificale dei testi dell'ultima cena, sul problema se Gesù abbia o meno attribuito significato espiatorio alla propria morte, sull'azione di Gesù nel Tempio . Tralascerò perciò completamente questi tre topoi classici. Mi concentrerò invece su pochi testi un pò meno dibattuti, ma a mio avviso abbastanza importanti per comprendere la posizione di Gesù nei confronti dei sacrifici ebraici. Tuttavia, non è inutile riassumere brevemente un dato esegetico abbastanza condiviso nell'ambito dell'esegesi contemporanea, ma forse meno conosciuto dagli studiosi cristiani di quel tipo di letteratura cristiana antica che con termine teologico viene chiamata «patristica». Tra questi studiosi, infatti, si trova a volte un'interpretazione conservativa dei testi neotestamentari che non corrisponde allo stato attuale della ricerca. L'interpretazione sacrificale della morte di Gesù (presente ad esempio in Mt 26,28 o in 1Cor 15,3-5) non è l'unica interpretazione della morte di Gesù attestata nei testi protocristiani. In essi troviamo un'interpretazione di tipo profetico, secondo la quale la morte di Gesù è un atto che si inquadra nella storia della persecuzione contro i profeti (1Tess 2,15; Mc 12,1-12; Atti 7,52); un'interpretazione «dialettica» (1Tess 4,14; Rom 8,34; 14,9a; 2Cor 13,4a; Atti ); una per la quale la morte è in funzione del patto (1Cor 11,25; Lc 12,35-38); una di tipo apocalittico (Mc 8,31). Il fatto che la morte di Gesù sia stata interpretata come morte espiatoria solo in alcune correnti protocristiane è un'ulteriore testimonianza del fatto che non si può assolutamente presumere che Gesù abbia interpretato la sua morte come un sacrificio che sostituisce i sacrifici del tempio di Gerusalemme. Soprattutto, sarebbe necessario domandarsi, ma non è il mio compito qui, quale concezione di sacrificio sia presupposta in quelle interpretazioni della morte di Gesù in senso sacrificale. Certamente quelle concezioni non possono essere assunte, lo ripetiamo, per definire cosa siano effettivamente i sacrifici ebraici. Il battesimo di Gesù da parte di Giovanni Battista (Mc 1, 9-11 // Lc 3,21-22 // Mt 3,13-17 // Gv 1,29-34 // EvEb (Epifanio, Panarion 30.13.7s) // EvNaz (Girolamo, Adv. Pelag. 3.2) // EvEbr (Girolamo, In Es. 11,1-3) è un fatto sulla cui storicità mi sembra difficile dubitare. Esso può porci a contatto con la fase iniziale del suo modo di atteggiarsi rispetto ai sacrifici. A favore della storicità del battesimo di Gesù da parte di Giovanni Battista sta il fatto della molteplice attestazione dell'evento da parte di fonti indipendenti. Il battesimo di Giovanni si proponeva la remissione dei peccati volontari di singoli membri del popolo ebraico. Si trattava, perciò, di un rito che di fatto entrava in polemica con il rito di Yom ha-kippurim. Accettando il Battesimo di Giovanni, Gesù accettava perciò implicitamente la critica del Battista al rito di Yom ha-kippurim, dal punto di vista particolare della remissione dei peccati volontari. Ho affermato che il battesimo di Giovanni era in relazione polemica con il rito di Yom ha-kippurim. A riprova di questa tesi valgono le seguenti argomentazioni. Un rito non è una concezione che qualsiasi pensatore religioso può escogitare per proprio conto. È invece un'azione sociale per la quale è necessario possedere un'autorità, un potere. Un rito, non autorizzato dalle istituzioni religiose ufficiali, che abbia per finalità la stessa finalità che persegue un rito gestito dalle medesime istituzioni (e cioè la remissione dei peccati volontari), è necessariamente in dialettica e in polemica con il rito ufficiale. Un rito che sostiene di operare la remissione dei peccati da parte di Dio si pone con un'autorità socio-religiosa che è indipendente da quella delle istituzioni religiose che la società considera consacrate da autorità divina. Anche ciò non può non entrare in dialettica con le istituzioni esistenti. Giovanni istituisce un rito nuovo, e proprio per questo crea spazi autonomi e marginali per praticarlo. La questione è però molto complessa. a) Anzitutto, il rito del Battista aveva per scopo la remissione dei peccati: questo mi sembra certo in base alla doppia testimonianza, indipendente e convergente, di Flavio Giuseppe (Ant XVIII, 117) e dei Vangeli di Marco 1,4 e Luca 3,4. b) Sul problema particolare e preciso del significato del battesimo di Giovanni nel suo complesso e del come tale rito, nella mente del Battista riuscisse ad operare la remissione dei peccati, il testo che mi sembra più attendibile dal punto di vista storico è quello di Flavio Giuseppe, Ant XVIII, 116-118. Giuseppe infatti, a differenza dei Vangeli che sono prevalentemente preoccupati del rapporto fra il Battista e Gesù, descrive più approfonditamente la concezione del rito:

Tis‹ d¢ t«n ÉIouda¤vn §dÒkei Ùlvl°nai tÚn ÑHr≈dou stratÚn ÍpÚ toË yeoË ka‹ mãla dika¤vw tinum°nou katå poinØn ÉIvãnnou toË §pikaloum°nou baptistoË. kte¤nei går dØ toËton Ñhr≈dhw égayÚn êndra ka‹ to›w ÉIouda¤oiw keleÊonta éretØn §paskoËsin ka‹ tå prÚw éllÆlouw dikaiosÊn˙ ka‹ prÚw tÚn yeÚn eÈsebe¤& xrvm°noiw baptism“ suni°nai: oÏtv går dØ ka‹ tØn bãptisin épodektØn aÈt“ fane›syai mØ §p¤ tinvn èmartãdvn paraitÆsei xrvm°nvn, éll' §f'
ègne¤& toË s≈matow, ëte dØ ka‹ t∞w cux∞w dikaiosÊn˙ proekkekayarm°nhw.

I dati che emergono da questo testo di Flavio Giuseppe mi sembra che si integrino molto bene con altri che emergono dai Vangeli. Il problema centrale qui è il seguente. Perché Giovanni Battista praticava l'immersione in acqua per ottenere l'agneia del corpo se l'afesis dei peccati era già stata ottenuta da atti di dikaiosyne? Nella mia interpretazione, l'immersione in acqua - il cosiddetto battesimo - è parte integrante di un processo religioso unitario, ma ne è solo una parte. L'intero processo aveva per scopo di porre in stato di purità completa e di obbedienza rigorosa alla Torah i singoli che vi si sottoponevano e che dovevano passare attraverso: (a) un riconoscimento interiore dei peccati, (b) probabilmente confessione pubblica dei medesimi (Mt 3,6), (c) una conversione interiore, che comportava un ritorno ad un rispetto rigoroso della Torah di Mosè (Ant XVIII, 117: to›w ÉIouda¤oiw keleÊonta éretØn §paskoËsin ka‹ tå prÚw éllÆlouw dikaiosÊn˙ ka‹ prÚw tÚn yeÚn eÈsebe¤& xrvm°noiw), (d) un insieme di atti di giustizia sociale (cf. dikaiosyne in Ant XVIII, 117; Lc 3,10-14) intesi in senso riparatorio e al fine di praticare la legge in modo rigoroso, secondo l'interpretazione del Battista, (e) infine l'immersione in acqua corrente del fiume. L'esecuzione di atti riparatori di giustizia provocava, secondo il Battista, il perdono dei peccati (paraitesis amartadon) e la purificazione della psyche, secondo i termini di Giuseppe, da parte di Dio stesso. L'immersione nell'acqua restituiva al corpo l'agneia, cioè la purità. I peccati di cui ci si doveva pentire erano peccati volontari. L'impurità che l'immersione toglieva dal corpo, quindi, non era un'impurità contratta tramite contatto fisico con fonti di impurità. La risposta alla domanda "perché mai sia necessaria una purificazione del corpo se i peccati morali sono già stati rimessi?" va, perciò, cercata nel fatto - a mio parere - che il Battista riteneva che, a causa della conversione interiore, della confessione pubblica e della riparazione tramite atti di giustizia, Dio perdonava il singolo e cioè non gli imputava più i castighi che aveva meritato, e tuttavia rimaneva ancora nel soma di coloro che erano stati perdonati una impurità provocata, non da contatto con fonti di impurità, ma dalla trasgressione morale. Secondo il Battista, il peccato compiuto nel cuore dell'uomo tramite un atto di volontaria ribellione a Dio non aveva solo conseguenze di ordine sociale, ma anche una contaminazione del corpo. Il perdono cancellava la colpa agli occhi di Dio, ma non eliminava l'impurità che contaminava il corpo. Questa contaminazione doveva essere tolta dall'acqua. Ora l'unico passo chiaro ed esplicito che io conosca che teorizza il fatto che la contaminazione corporea è effetto di peccato morale e non solo di contatto con fonti di impurità si trova in 1QS (VI,16.20) ma non è estranea, se dobbiamo credere all'interpretazione di J.Milgrom sopra riportata, alla concezione stessa del Levitico. Ciò fa intravedere la storia di un problema e alcune delle diverse soluzioni ipotizzate. Per giunta, come Levine ha sottolineato, il rito di Yom ha-kippurim non prevedeva uno specifico rituale di purificazione del popolo. Il Battista sembra volere rispondere anche a questa carenza del rito annuale del Tempio. Rimane del tutto estranea al rito del Battista una riflessione sulla necessaria purificazione del Tempio. Che il Tempio fosse contaminato o meno dai peccati volontari o involontari non influisce minimamente - secondo il Battista - sulla possibilità che le persone potessero individualmente ottenere il perdono e ottenere una purificazione corporea sufficiente. Solo questo a lui interessava. In sostanza, il Battista mirava alla costituzione di un nucleo di persone che ritornasse ad una rigorosa fedeltà alla Torah e si mantenesse anche in stato di rigorosa purità corporea soprattutto per quanto riguarda quella purità che deriva dalle colpe morali. Egli, però, rispettava rigorosamente anche le norme di purità rituale come ha dimostrato con acutezza E.Lupieri (1985). Dire che il Battista avesse forti riserve sul rito di Yom ha-kippurim non significa, però, dire che egli fosse contro il Tempio di Gerusalemme, ma solo che egli entrava in conflitto con le istituzioni del Tempio per quanto riguarda gli scopi, certo importanti, ma limitati che si proponeva con il proprio rito. Ugualmente, Giovanni non è affatto contro la Legge del Pentateuco che prescriveva il rito di Yom ha-kippurim perché abbiamo visto come ci sia incertezza sul come possano essere espiati e perdonati i peccati individuali in quella cerimonia. Il fatto che Gesù si sia fatto battezzare dal Battista significa che egli condivideva la critica a Yom ha-kippurim come strumento espiatorio fondamentale dei peccati individuali volontari. Questa distanza critica rispetto a Yom ha-kippurim potrebbe spiegare il perché questa fondamentale ricorrenza sia stata completamente abbandonata dalla tradizione cristiana che invece ha mantenuto Pesach e Shavuot cristianizzandole. Il Battista afferma che la giustizia fra gli uomini opera la remissione. Il che significa che Dio concede il perdono semplicemente in seguito ad un'operazione interpersonale. È come se il Battista non tenesse in considerazione i peccati che infrangono la prima parte del Decalogo, la parte per così dire sacrale, quella che precede il precetto «onora tuo padre e tua madre» (Es 20, 12). Per i precetti precedenti, infatti, non ci sono atti di giustizia riparatori da compiere. Bisogna allora pensare che il Battista ipotizzasse altri strumenti espiatori per i precedenti precetti? L'esistenza di un dibattito sulla distinzione dei mezzi espiatori a proposito delle diverse categorie dei precetti è ben attestato nella letteratura rabbinica e su di esso ha attirato ormai più di vent'anni fa l'attenzione anche E.P.Sanders. In particolare ricordo Mekilta Bahodesh 7 (227-229; II,249-251; su Es 20,7) e Tosefta, Yom ha-kippurim 4[5],5 che attribuiscono pareri opposti a Rabbi e R.Yuda, il primo dei quali afferma che il pentimento espia per i peccati che precedono il precetto di non pronunciare il Nome mentre per gli altri l'espiazione è operata dal pentimento e da Yom ha-kippurim. A R.Yuda è attribuito il parere esattamente contrario. Anche la dichiarazione di Mc 3,28 sembra rientrare in questa tradizione di discussione sui diversi mezzi di espiazione a seconda delle diverse categorie di peccato. Anzi sembra indicare che Gesù non distingueva tra peccati contro l'uomo e peccati contro Dio (idolatria, profanazione del nome): «tutti saranno perdonati ai figli degli uomini i peccati e le bestemmie che diranno» la posizione enfatica di tutti, che abbraccia letterariamente le due categorie degli amartemata e delle blasfemiai indica che il redattore del detto distingue due categorie di trasgressioni: gli amartemata (che sono trasgressioni in generale) e le blasfemiai (che sono peccati contro Dio). Ma che queste due categorie sono tutte soggette ad afesis escatologica da parte di Dio. In realtà, il detto non dice se i mezzi per ottenere il perdono sono diversi per gli amartemata e per le blasfemiai. Potrebbe essere. Infatti, secondo la teoria del Levitico bisogna sempre distinguere tra il kipper e il nislah, tra la kapparâ e l'afesis. Il detto parla solo dell'afesis, ma non dei meccanismi per operare la preventiva kapparâ. Quindi potrebbe essere che il precetto gesuano pretenda universalità ed elimini la distinzione tra due categorie all'interno del decalogo. Se le funzioni principali dei sacrifici previsti dal Levitico erano quelle a) di permettere l'avvicinamento a Dio per potersi porre alla sua presenza, b) di purificare i luoghi e gli strumenti del Tempio dalle impurità dei peccati involontari (per permettere la presenza di Dio nel Tempio), una insoddisfazione nei sacrifici poteva nascere in coloro i quali ritenevano che l'avvicinamento alla presenza di Dio e la purificazione preventiva avvenissero in modi differenti, soprattutto per quanto riguarda i peccati volontari. Essi potevano pensare a) che l'avvicinamento alla presenza di Dio si ottenesse in altri modi, b) che il sangue non avesse funzione purificatrice; c) oppure che non fosse necessaria la decontaminazione di luoghi per permettere la presenza di Dio, oppure che non ci fosse alcuna contaminazione di luoghi nel senso che la teoria per la quale la contaminazione potesse essere trasmessa ad oggetti di culto fosse senza fondamento. Ora, questo avveniva, in parte, a Qumran dove: a) si pensava ad una metaforizzazione del Tempio, nel senso che l'abitazione di Dio tra gli uomini sarebbe avvenuta nella terra di Israele purificata all'interno del popolo di Israele purificato che costituiva esso stesso il Tempio e il Santo dei santi (1QS VIII,5-6.10; cf. anche IX,4-5.9). Lo strumento dell'abitazione di Dio sarebbe stato lo Spirito di Dio stesso; b) si pensava che la contaminazione corporea derivasse anche da trasgressioni morali o religiose (1QS III, 5-6: «impuro, impuro sarà tutti i giorni che rifiuta i precetti di Dio» [1QS III, 5-6]) e non solo da contatto con fonti di impurità. Non sappiamo quanto a lungo durasse la contaminazione del corpo dopo l'immersione, secondo il Battista. Le nostre fonti non sono interessate a trasmettercelo. Ma nessun ebreo del I secolo interessato alla purità corporea avrebbe trascurato di indagare questa questione. Per tutti era ovvio che l'immersione non opera una scomparsa immediata dell'impurità.

Il distacco di Gesù da Giovanni

Ma è proprio su questo punto che Gesù sembra ad un certo punto essersi distaccato da Giovanni. Il Vangelo di Giovanni (Gv 4,1-2) presuppone una tradizione per la quale Gesù, subito dopo il battesimo ricevuto da Giovanni, praticava anch'egli il battesimo, e cerca di correggerla, non negando il fatto, ma semplicemente precisando che non Gesù in persona, ma i suoi discepoli battezzavano. Questa attestazione è certamente tarda storicamente, ma proprio per la sua divergenza con il resto delle notizie evangeliche e per il fatto stesso che il redattore del Vangelo di Giovanni vuole correggerla, potrebbe avere una certa probabilità di storicità. Non è quindi da escludere che Gesù, per un certo periodo, abbia battezzato come discepolo del Battista. Dopo questo probabile inizio battista, Gesù però si distacca dal rito del battesimo che, come è attestato nel materiale che ci perviene dai testi protocristiani, scompare completamente dalla sua prassi. Dopo questo primo periodo, Gesù perverrà ad una sua personale concezione. Egli proclamerà che la remissione dei peccati è solo condizionata dalla riconciliazione reciproca, non solo senza alcun bisogno del rito di Yom ha-kippurim, ma anche senza alcun bisogno di successiva decontaminazione corporea. La modifica rispetto a Giovanni Battista mi sembra potrebbe ragionevolmente essere ricondotta ad un distacco dalla concezione per la quale un'immersione nell'acqua possa decontaminare oppure addirittura all'abbandono dell'idea che il peccato morale contamini il corpo. Ma contro questa seconda interpretazione sta il detto di Mc 7,20.23 che sembra presupporre che il peccato morale contamini l'uomo: «Ciò che esce dall'uomo, questo contamina l'uomo» (7,20); «tutte queste cosa cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo» (7,23). In questo testo marciano Gesù rimane fedele alla concezione del Battista, di 1QS e levitica. Cosicché, se un distacco dal Battista c'è, deve consistere in un distacco dall'idea che sia necessario decontaminare il corpo. Gesù si distacca dal Battista anche per una seconda prassi rituale: il digiuno (e l'astensione dal vino). Non si tratta di una generica denuncia dell'inefficacia dell'ascesi come via di salvezza, ma forse dell'abbandono di uno strumento di auto-umiliazione corporea che deve accompagnare l'atto di giustizia in funzione dell'ottenimento del perdono dei peccati, visto che il digiuno era uno degli strumenti fondamentali per l'ottenimento del perdono nel rito di Yom ha-kippurim (cf. Is 58, 3-7). Si potrebbe perciò ipotizzare che, forse, qualsiasi aspetto corporeo (purificazione, auto-umiliazione nel senso del digiuno) sembrasse a Gesù inefficace per il perdono dei peccati volontari.

La concezione originale di Gesù

Per conoscere la posizione successiva di Gesù abbiamo due serie di testi. Da un lato stanno i testi che ci parlano di come Gesù intendesse il perdono dei peccati; dall'altro i testi in cui Gesù parla del come comportarsi nei confronti dei sacrifici del Tempio.

La remissione dei peccati senza espiazione sacrificale e senza decontaminazione

Esiste una serie di testi in cui si parla del perdono dei peccati, ma non si menziona mai la funzione di Gesù (né la sua funzione espiatoria, né la sua autorità nel perdonare i peccati, né la necessità della fede in lui). La remissione dei peccati non necessita di alcun sacrificio, né del rito di Yom ha-kippurim, neppure della morte di Cristo (come invece affermerà ad esempio 1Cor 15,3: «Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture»). In questi testi, la remissione dipende semplicemente dal rapporto tra il peccatore, Dio, e il prossimo. I testi che contengono questa concezione si trovano nei tre Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) e tramandano parole attribuite a Gesù. In Matteo 6,12 una delle invocazioni del Padre nostro afferma «e condona i nostri debiti, come noi abbiamo condonato i nostri debitori» Al v. 14 Gesù stesso commenta questa invocazione con le seguenti parole: «Perché se voi perdonate agli uomini le loro trasgressioni, anche il vostro padre celeste perdonerà voi. Ma se voi non perdonerete agli uomini le loro trasgressioni, neppure il vostro padre celeste perdonerà le vostre trasgressioni». Questa spiegazione è assente in Luca e si ritrova in una forma diversa nel Vangelo di Marco: «e quando siete in piedi a pregare, perdonate se avete un'accusa contro qualcuno, cosicché anche il vostro padre che è nei cieli possa perdonarvi le vostre trasgressioni» (Mc 11,25-26). Qui la concessione del perdono da parte di Dio non richiede una espiazione sacrificale né da parte del peccatore, né da parte di un salvatore che si sostituisce a lui. La condizione necessaria, sine qua non, per ottenere la remissione è il perdono preventivo concesso agli altri. Il perdono da parte di Dio è ottenuto attraverso un rapporto trilaterale tra il peccatore, l'offeso, e Dio, senza alcun atto espiatorio sacrificale, senza alcun tipo di umiliazione corporea, o decontaminazione corporea, e senza alcuna funzione di Gesù, cristologica o meno.

Gesù e l'accettazione dei sacrifici

La seconda serie di testi, invece, consta di affermazioni in cui Gesù o invita a compiere nel Tempio di Gerusalemme il sacrificio richiesto o spiega a quali condizioni si possa compiere un sacrificio. Sono i due testi fondamentali di Mc 1,40-44.45 (che ci è pervenuto anche nella redazione di Mt 8,1-4 e Lc 5,12-14.15 e PEger 2) e di Mt 5,23-24 che è senza paralleli sinottici. Una prima questione è se questi due testi riflettano l'atteggiamento del Gesù storico o invece quello dei redattori dei Vangeli di Mc e di Mt o di tradizioni ad essi precedenti e da essi recepiti. In cominciamo dal testo di Marco: «allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: 'Se vuoi, puoi purificarmi'. Irritatosi [secondo D, oppure «commosso», secondo le prevalenti testimonianze] stese la mano, lo toccò e gli disse: 'Lo voglio, sii purificato'. Subito la lebbra scomparve ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse 'Guarda di non dire niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro'» (Mc 1,40-44). Il papiro Egerton è frammentario e si interrompe prima della frase di Marco «e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato». Mt 8,4 e Lc 5,14 coincidono con Mc e sembrano dipendere da lui piuttosto che da una fonte comune indipendente da Mc. Mt ha voluto esplicitare la espressione di Mc «le cose che Mosè ha ordinato» con un termine che dica espressamente che si tratta di un sacrificio: doron. Secondo Lev 14, 1-20, infatti, a lebbra scomparsa, deve essere compiuta una serie complessa di sacrifici. Non è però il sacrificio, né alcuna pratica rituale che toglie la lebbra. Essi servono per la purificazione sia del corpo del lebbroso guarito, sia dei luoghi santi del Santuario. Gesù, quindi, compiendo l'atto di guarire il lebbroso non ha sostituito alcun atto rituale né sacrificale. Non si può quindi dire che Gesù operando egli stesso la guarigione abbia reso inutile il sacrificio. Non si può neppure dire che i riti sacrificali da compiere nel Tempio fossero superflui. Anzi, erano dettati obbligatoriamente dalla Torah e il Gesù di questo detto dimostra di voler rispettare questa norma divina codificata nella Torah. Bisogna però tenere conto che i riti sacrificali per la purificazione corporea di coloro che sono guariti da lebbra e per la purificazione dei luoghi sacri del Tempio non sono sacrifici per i peccati volontari. In sostanza, la frase attribuita a Gesù («presentati al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato») accetta questi sacrifici ma non la teoria per la quale il sacrificio espia i peccati volontari. Il sacrificio, come Mc 1,44 afferma esplicitamente, è «per la tua purificazione (katharismos)». Il fatto che Gesù accetti il sacrificio per la purificazione del lebbroso previsto da Lev 14,1-20 non ha nulla a che fare con il perdono dei peccati. Il sacrificio per la purificazione del lebbroso non è un hatta't. La frase «a testimonianza per loro» è un'aggiunta redazionale. Ciò è dimostrato da due fatti: a) «per loro» è un plurale che male si accorda con il singolare «al sacerdote», singolare che sembra essere una citazione da Lev 13,49 LXX (deixon to hierei); b) la frase si presenta altre tre volte in Marco e perciò sembra un commento apposto in modo ripetitivo per difendere una tesi. La frase è ripetuta alla lettera nei passi paralleli di Mt 8,4 e Lc 5,14. È molto importante notare che questa frase è un'espressione che ritorna altre due volte in Marco (Mc 6,11// Lc 9,5 ma assente in Mt 10,14; Mc 13,9// Mt 10,18 ma assente in Lc 21,13 dove però la testimonianza è «per voi» e non «per loro»; Mt 24,14 («in testimonianza per le genti») è senza paralleli in Mc e Lc. Nei suoi tre casi, Matteo preferisce l'espressione «a testimonianza per loro e per le genti» o solo «per le genti». Luca mantiene due volte «a testimonianza per loro» e la trasforma una volta in «per voi». La purificazione avvenuta e constatata dal sacerdote e sanzionata dall'offerta sacrificale sarà una testimonianza per «loro», sacerdoti o resto della popolazione ebraica. Si tratta di una testimonianza inequivocabile perché il sacrificio può essere fatto solo se il sacerdote ha esaminato il corpo del lebbroso e ha constatato la scomparsa della lebbra nel modo prescritto. Nel secondo testo marciano la testimonianza consiste in un gesto profetico con il quale i predicatori respinti sbattono in faccia agli increduli i sandali scuotendone la polvere del loro territorio. Un gesto di testimonianza escatologica perciò. Tale aspetto escatologico torna nel terzo testo marciano (13,9). La testimonianza avviene di fronte a tribunali, sinagoghe governatori e re, cioè di fronte ad istituzioni pubbliche ebraiche e non ebraiche. «Loro» sono qui sia ebrei sia gentili. La testimonianza sembra consistere nel fatto che i seguaci di Gesù perseguitati manifestano le proprie convinzioni pubblicamente e questo costituisce «testimonianza». Anche qui si tratta di una testimonianza inequivocabile perché pubblica. Sulla base di questi dati, mi sembra gioco forza concludere che la frase, nella mente del redattore Marco, ha lo scopo di affermare che l'offerta sacrificale del lebbroso purificato (obbligatoria secondo la volontà di Dio rivelata a Mosè nel Pentateuco) costituirà una testimonianza per il resto della popolazione circa il potere di Gesù. Ciò che è assolutamente chiaro dall'analisi dell'uso di questa frase nei Sinottici è che essa non ha la funzione di attenuare in alcun modo il comando di Gesù al lebbroso di compiere un sacrificio. La frase non significa che il lebbroso debba compiere il sacrificio, nonostante sia un atto inutile, o anzi riprovevole, solo perché gli Ebrei che non credono in Gesù conservano ancora la credenza nei sacrifici. Inoltre, la frase «a testimonianza per loro», aggiunta a quella di Gesù «presentati al sacerdote» sta a testimoniare che Mc riteneva che Gesù avesse dato al lebbroso il comando di offrire un sacrificio. Ciò è di estrema importanza perché dimostra che Mc non conosceva alcuna affermazione di Gesù contro i sacrifici. Esaminiamo ora il caso di Mt 5, 23-24: «Se dunque presenti il tuo dono sull'altare e li ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia li il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a presentare il tuo dono». Di questo detto abbiamo solo la testimonianza di Matteo. Il thysiaterion di cui si parla non può che essere l'altare all'aperto perché solo in relazione ad esso può trattarsi di una thysia, cioè di immolazione di un animale. Che Matteo sapesse di cosa stava parlando risulta anche da 25,35. Sembrerebbe quindi che, come il Battista pensava che la purificazione dovesse essere preceduta dal perdono dei peccati mediante atti di giustizia, così il Gesù di Mt 5, 23-24 pensasse che l'atto sacrificale dovesse essere preceduto da una riconciliazione a livello sociale. Dopo la riconciliazione poteva seguire il sacrificio che, tuttavia, secondo il Levitico, non ha valore espiatorio per i peccati volontari, ma serve solo a togliere l'impurità dal Tempio provocata da atti di impurità fisica. Nel caso di Mt 5,23-24, sembra trattarsi di un sacrificio individuale, non collettivo. I sacrifici individuali potevano essere presentati per i seguenti scopi: il peccato involontario del sacerdote (Lev 4, 1-12); il peccato involontario di un capo del popolo (Lev 4, 22-26); il peccato involontario di una persona del popolo (Lev 4, 27-35); in caso di confessione di uno dei seguenti peccati: chi non dà testimonianza nonostante l'imprecazione (Lev 5,1); chi ha toccato senza volerlo un corpo di bestia, animale domestico o rettile (Lev 5,2); chi ha toccato, senza intenzione, una fonte di impurità (Lev 5,3); chi ha dimenticato di compiere il suo voto (Lev 5,4); chi ha giurato il falso (Lev 5, 20-26 par.). Esistono, poi, i sacrifici individuali di riparazione (Lev 5,14-19) che sono tuttavia per peccati involontari. Esistono, infine, i sacrifici individuali offerti per voto (Lev 7,16-17) o per tutti i processi di decontaminazione previsti da Lev 12-15 (parto, lebbra, contaminazioni sessuali, mestruazione) e quelli di comunione (Lev 7, 11-15). Ma in tutti questi ultimi casi non si tratta di peccato, nemmeno involontario. Il rito di Yom ha-kippurim, è importante ricordarlo, non è un rito per il perdono dei peccati di un individuo, ma è un rito collettivo, perciò non è di questo certamente che Mt 5, 23-24 sta parlando. Matteo perciò può riferirsi o a un sacrificio per un peccato involontario, o a un sacrificio per un peccato volontario di quella specifica categoria rappresentata da Lev 5, 1 e da Lev 5, 20-26, cioè quando è implicato un giuramento, o a sacrifici individuali per voto o per decontaminazione. Le possibilità sono due: o il Gesù di Matteo prende in considerazione il sacrifico individuale in quanto tale, indipendentemente dal fatto che sia presentato per il peccato, per voti o per decontaminazione, oppure mette nel fuoco dell'attenzione il rapporto tra uomo e Dio che si attua nel sacrificio e rapporto del sacrificante con altri uomini. Ora, questa seconda ipotesi si verifica solo se i sacrifici a cui Matteo pensa siano quelli di Lev 5,1 e Lev 5, 20-26 perché solo in questi due casi il sacrificio ha a che fare con un grave danno causato intenzionalmente ad altri da parte dell'offerente. Ora pero il Levitico prevede già, almeno nel secondo caso, che si debba operare una riparazione del danno che equivale alla riconciliazione o ne è conditio sine qua non. A me sembra probabile, perciò, che Matteo stia qui affermando che qualsiasi atto sacrificale, per il solo fatto di essere un atto di culto rivolto a Dio (e del tutto indipendentemente dal fatto di essere in relazione o no con peccati volontari o involontari), non possa essere compiuto se non c'è stata una riconciliazione con coloro che hanno buon diritto di risentirsi per atti riprovevoli commessi nei loro confronti dall'offerente e se questa riconciliazione non è avvenuta prima dell'offerta. Sembrerebbe così che per il Gesù di Matteo qualsiasi atto di culto verso Dio coinvolge gli atti compiuti verso altri uomini, ha un legame inscindibile con essi. La riconciliazione sociale appare come condizione sine qua non per un rapporto di culto con Dio. Sarebbe però troppo affermare che non la purità rituale è la condizione sine qua non per presentarsi a Dio, ma solo la riconciliazione effettuata con il resto del gruppo. Ciò che è in gioco è la condizione con la quale ci si può porre in rapporto con Dio. La riconciliazione sociale è il presupposto del rapporto con Dio. Questo è certo, ma il detto non interviene criticamente anche sulla condizione di purità richiesta dall'atto di culto. Questa è data per scontata. Mi sembra del tutto assente in Matteo quella critica alle norme di purità del culto del Tempio che troviamo invece nel frammento di Vangelo che si ritrova in P 840. Ma perché è necessaria la riconciliazione sociale come condizione dell'atto sacrificale? La risposta va cercata tenendo conto del fatto che l'atto di culto sacrificale rende in grado di porsi alla presenza di Dio (cf. Lev 16,30: scopo del rito è la purificazione del popolo). Perché allora ci si può porre alla presenza di Dio solo dopo avere operato la riconciliazione sociale? Se il Gesù di Matteo ritenesse che i peccati di ordine morale contaminano l'uomo e che solo l'atto di riparazione di giustizia permette all'uomo l'afesis dei peccati, Gesù dovrebbe richiedere anche un'immersione in acqua per la decontaminazione. Ciò non è richiesto. Allora dobbiamo ritenere che la condizione che Gesù giudica necessaria per potersi porre alla presenza di Dio sia l'avere ottenuto la cancellazione dei peccati. Per cancellare i peccati, nella concezione levitica, sono necessarie due fasi espresse dai verbi kipper e nislah. Il sangue del sacrificio spruzzato dal sacerdote opera la kapparâ. A questo punto Dio cancella il peccato, cosa che l'ebraico esprime con la forma niphal nislah e la LXX con il verbo afienai, e il sostantivo afesis. È stato notato che in alcuni sistemi religiosi ebraici del I secolo c'è la tendenza a confondere questi due verbi e attribuire a kipper il significato di nislah e viceversa e quindi a riassumere nell'afesis anche la kapparâ Qui la condizione del perdono dei peccati è, comunque, solo la riconciliazione con quello che Matteo definisce adelfos sou, il tuo fratello. Il Gesù di Matteo non dice all'offerente: va pure a presentare l'offerta perché i tuoi peccati li ho già cancellati io, neppure dice, va pure a presentare l'offerta perché i peccati contro il fratello li ha espiati la mia morte. Dice il contrario: non presentare l'offerta finché tu non hai compiuto l'atto della riconciliazione. A quel punto il perdono dei peccati sembra operato. Il perdono dei peccati non ha quindi alcuna implicazione cristologica ma è solo effetto di una triangolazione diretta tra l'uomo, il suo fratello e Dio. Esattamente come in Mt 6,12. Il Gesù di Matteo, quindi, si differenzia qui dal Battista perché non ritiene necessaria una purificazione corporea dopo il perdono dei peccati avvenuto in seguito ad atti di giustizia. Ammette, però, in secondo luogo, la necessità di sacrifici, anche se in questo caso specifico di sacrifici individuali che non riguardano il perdono dei peccati volontari (sacrifici che del resto non esistevano). Di fronte a questa probabile concezione abbiamo due possibilità di interpretazione. a) Si può pensare che questa posizione non sia di Gesù, ma solo di Matteo che appartiene ad una comunità di seguaci di Gesù che, dopo la morte di lui, ha continuato a praticare i sacrifici fino a quando il Tempio è esistito. Questa comunità avrebbe però mantenuto il principio per il quale il perdono dei peccati era operato mediante atti di giustizia e di riconciliazione. Questa comunità considerava che l'atto di culto a Dio compiuto con l'offerta sacrificale, che di per sé non operava l'espiazione dei peccati volontari dei singoli, dovesse essere preceduto dall'atto di riconciliazione. b) Si può pensare che questa concezione fosse di Gesù e, in questo caso, Gesù non avrebbe mai disconosciuto i sacrifici del Tempio, ma solo sarebbe intervenuto sulla questione del perdono dei peccati volontari. Il fatto fondamentale, però, che lo storico deve registrare è che Matteo attribuisce a Gesù un detto che presuppone chiaramente la liceità e la doverosità dei sacrifici. Chi volesse sostenere che Gesù era contrario ai sacrifici e non ha mai pronunciato questo detto e che esso è solo una costruzione di Matteo dovrebbe rendersi conto che proprio questa presunta creazione di Matteo dimostra che Gesù era favorevole ai sacrifici. Matteo, infatti, poteva attribuire a Gesù una frase che considerava implicita la liceità dei sacrifici solo se la tradizione evangelica non aveva tramandato nessun detto di Gesù contro i sacrifici. Sono da notare altri due passi di Matteo che possono spiegare l'atteggiamento delle comunità che stanno dietro questo vangelo. Si tratta di Mt 9,13 e di Mt 12,7. In tutti e due i casi viene citato un passo di Osea (6,6) (dalla traduzione dei LXX) eleos thelo kai ou thysian («voglio misericordia e non immolazione [sacrificale]»). Il primo passo (Mt 9,13) cita questa frase di Osea in un contesto in cui si parla della conversione dai propri peccati volontari. Gesù viene accusato di mangiare con peccatori e pubblicani e risponde che sono i malati che hanno bisogno del medico. A questo punto segue l'osservazione: «e imparate cosa significhi: 'voglio misericordia e non immolazione sacrificale'. Poiché io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori» (Mt 9,13). Dal confronto sinottico, si vede che è solo Matteo che ha introdotto e aggiunto questa spiegazione biblica al comportamento di Gesù. Anzi, si vede che Mt ha spezzato in due il logion di Gesù che era composto di due frasi e vi ha inserito in mezzo la citazione di Osea. Ciò significa che Mt ha cercato un collegamento di questo versetto con un detto di Gesù. Siamo di fronte ad un'operazione esegetica di enorme importanza per l'evoluzione delle concezioni del primo cristianesimo. Matteo era consapevole che non esistevano parole di Gesù contro i sacrifici. Matteo sapeva che Gesù considerava normali i sacrifici. Matteo sapeva che quella particolare comunità di seguaci di Gesù (alla tradizione della quale egli apparteneva) dopo la morte di lui aveva continuato a praticare il culto sacrificale finché il Tempio era in piedi, come dimostra Mt 5, 23-24. Ma egli ormai vedeva il Tempio distrutto. Egli era ormai pervenuto alla convinzione che il perdono dei peccati avvenisse nel sangue di Cristo, come afferma esplicitamente in Mt 26,28. Egli cercava perciò di capire in che modo Gesù legittimasse una critica ai sacrifici. Mt credette di trovare nel primo membro del logion di Gesù che egli trovava in Mc 2,17 (o in Q 5,32, se si preferisce) una autorizzazione a criticare i sacrifici. Non può passare sotto silenzio il fatto che, nella tradizione rabbinica, proprio questo versetto di Osea venne usato per giustificare una teoria della remissione dei peccati senza sacrifici. J.Neusner, in un articolo che pubblichiamo in questo stesso numero di rivista, cita un brano di Abot de Rabbi Nathan: IV.V.2: «Una volta, dopo la distruzione del Tempio, Rabban Yohanan ben Zakkai stava uscendo da Gerusalemme con R. Joshua che lo seguiva. Egli vide il Tempio in rovina. R. Joshua disse 'guai a noi perché questo luogo giace in rovina, il luogo nel quale i peccati di Israele erano espiati'. Egli gli disse 'Figlio mio, non ti disperare. Noi abbiamo un altro modo di espiazione che è simile all'espiazione mediante sacrificio, e qual è? Sono le opere di misericordia'. Perché è detto, 'Perché io desidero misericordia e non sacrificio, e la conoscenza di Dio piuttosto che olocausti' (Os. 6,6)» (Abot de Rabbi Nathan IV.V.2). Certo, è per me difficile essere certo dell'attribuzione di questo detto a Yohanan ben Zakkai, che - come è noto - potrebbe essere contemporaneo di Mt. Rimane però il fatto che questo brano viene usato con la stessa funzione sia in Mt sia in Abot de Rabbi Nathan. Non mi sembra che Gnilka giudichi bene quando afferma che «Per Gesù è in gioco la liberazione dell'uomo da pregiudizi indegni della sua natura. In ciò si distingue il nostro uso della citazione di Osea da quello di rabbi Johanan ben Zakkai [...] che volle servirsene per confortare i propri discepoli di fronte alle rovine del tempio». Gnilka presuppone che la discussione di Gesù con gli avversari verta tutta sulla questione delle norme di purità da rispettare mangiando. Ma, anche a prescindere se ciò sia vero o no, rimane il fatto che bisogna nettamente distinguere la discussione sul fatto che Gesù mangiava insieme ad appaltatori di tasse e peccatori dal problema che Mt affronta con la citazione di Osea. Tale citazione serve a Mt per tutt'altro scopo: quello di giustificare mediante un'operazione esegetica sulle parole di Gesù le concezioni sulla remissione dei peccati senza sacrificio che Matteo sosteneva. Johanan ben Zakkai dice che la hesed richiesta da Osea (che la LXX traduce eleos), è la gemilut hassidim. Matteo dice che questa hesed / eleos è il mangiare di Gesù insieme ai peccatori. Ma il problema è il medesimo. Se non c'è più il sacrificio hatta't, come espieremo i peccati? Esaminiamo ora il secondo caso in cui Mt, a differenza di Mc e Lc, mette sulla bocca di Gesù la citazione da Osea 6,6 «misericordia voglio e non immolazione sacrificale». Ancora una volta siamo in un contesto in cui gli avversari accusano, questa volta i discepoli, di mangiare in modo non corretto: qui i discepoli strappano spighe di sabato per mangiarsele. Il contesto anche qui è perciò polemico e anche qui riguarda il mangiare. Mt 12,1-8 inserisce, rispetto a Mc 2,23-28 e Lc 6,1-5, tre frasi, altrimenti ignote, di Gesù, che affermano a) che nel Tempio i sacerdoti annullano il sabato per certe pratiche necessarie, b) che egli è maggiore del tempio (e perciò è lecito annullare il sabato in sua presenza) e c) che chi rivolge ai suoi discepoli questa critica non capisce il significato del passo di Osea 6,6 («misericordia voglio e non immolazione sacrificale»). Il dibattito in cui Matteo inserisce questi tre riferimenti non ha nulla a che fare con i sacrifici, ma con il problema se sia lecito strappare spighe di sabato per mangiarle. La risposta di Gesù, nel brano che Mt riceveva dalla tradizione e che ritroviamo in Mc 2,23-26, si riferiva a quello che David fece nel Tempio. Mt 12,5 aggiunge dapprima un riferimento a Lev 24, 5-9 che ancora una volta non riguarda i sacrifici. E' a questo punto che Mt inserisce due frasi di Gesù che cambiano argomento e piegano il riferimento al brano del Levitico ai fini di tutt'altra discussione. Anche Gnilka riconosce che «la frattura rispetto all'inizio della pericope è evidente». Ma pensa che Mt voglia introdurre una tematica cristologica che prepara l'affermazione cristologica finale del brano sul potere del Figlio dell'Uomo. Io, al contrario, ritengo che Mt abbia operato qui una digressione per ricavare da un detto di Gesù una teoria sulla non importanza dei sacrifici, tema sul quale egli non aveva a disposizione parole di Gesù. Matteo, prima di affermare la padronanza di Gesù sul sabato, approfitta del fatto che Gesù, nella sua risposta alla critica, aveva portato l'esempio di Davide che entrò nel Tempio e mangiò i pani dell'offerta e, agganciandosi a questo riferimento al Tempio, fa due affermazioni: a) che c'è qualcosa di più grande del Tempio, il che non significa una sua abolizione, ma sua relativizzazione rispetto a qualcosa di maggiore; b) che gli avversari non capiscono il senso della frase di Osea («misericordia voglio e non immolazione sacrificale»). Se l'avessero capita non accuserebbero i discepoli che sono senza colpa. Matteo non è contro il Tempio e perciò afferma non che il Tempio non ha valore, ma che Gesù è «più grande» (meizon) del Tempio. Finché il Tempio c'è stato, i membri della sua comunità lo hanno frequentato e hanno partecipato attivamente al culto sacrificale. Ora, tuttavia, non c'è più. E si tratta di trovare un'alternativa al culto sacrificale. Matteo, del resto, non è neppure contro il sabato e vuole discolpare i discepoli da questo punto di vista: essi sono «senza colpa» (anaitioi). Ma quale è il collegamento che Matteo vede tra il versetto di Osea 6,6 e il comportamento dei discepoli (un collegamento ci deve essere perché Mt sostiene che se gli avversari l'avessero compreso non avrebbero incolpato degli innocenti) e che funzione ha, nel ragionamento, la superiorità di Gesù sul Tempio? Non si può rispondere a queste domande se non si capisce perché la hesed dovrebbe essere in contraddizione con la thusia. Ora, hesed è, a mio avviso, quell'atteggiamento di Dio che consiste nel sospendere la legge per affermare la giustizia. Il condono dei debiti sospende la legge che richiede la restituzione, ma afferma una maggiore giustizia perché va incontro agli oppressi. La thysia allora sembrerebbe rappresentare solo il rispetto della legge. La thysia, infatti, serve a ristabilire un ordine infranto e suppone che Dio non perdoni fino a quando l'uomo non ha ristabilito l'ordine che ha infranto. Con la hesed, invece, Dio condona in vista di un ristabilimento di una più ampia giustizia. Gesù, che è più grande del Tempio, rappresenta la hesed che è più grande della thysia del Tempio. Per la comprensione di queste due citazioni bibliche messe in bocca a Gesù bisogna partire da un dato esegetico assolutamente dirimente: dal confronto sinottico emerge che questa citazione è sempre un'aggiunta redazionale di Matteo. Essa non può essere attribuita a Gesù. Il dato esegetico lo vieta. Lo storico deve perciò domandarsi perché mai Matteo, e solo Matteo, abbia messo sulla bocca di Gesù per ben due volte questa medesima citazione da Osea. La risposta obbligata è che Matteo, o la tradizione che egli ripete, aveva delle sue ragioni che vanno ritrovate nella storia dei gruppi post-gesuani che egli rifletteva. Se Matteo (o la tradizione che egli riflette) cita la frase di Osea è perché la tematica del sacrificio doveva essere rilevante per lui (o per la tradizione che egli riflette). Dobbiamo quindi ipotizzare una situazione di una comunità di seguaci di Gesù, dopo la morte di Gesù stesso, in cui avesse senso fare una polemica o una critica alla pratica sacrificale. Si possono ipotizzare due diverse possibilità. La prima è che Matteo, di fronte alla distruzione del Tempio, abbia cercato di trovare nelle parole di Gesù o nel suo comportamento qualche aggancio che rendesse praticamente inutili i sacrifici. Certo, tutti sapevano che Gesù era tutt'altro che contrario ai sacrifici. Tutti quei seguaci di Gesù, che appartengono a quella corrente che il Vangelo di Matteo riflette, praticavano i sacrifici. Matteo, o la tradizione a lui precedente, vuole dire a questi post-gesuani che praticano i sacrifici, che più che i sacrifici è importante la misericordia. Questi due passi (Mt 9,13; 12,7) mi inducono a ritenere che Matteo abbia il problema di coordinare l'adesione alla prassi sacrificale del Tempio con una adesione alla concezione e alla prassi gesuana del perdono dei peccati. Matteo ha scelto di coordinare la posizione di Gesù con una certa esistenza all'interno delle istituzioni giudaiche. C'è infine un passo di Marco, Mc 12, 28-34, (che ha il suo parallelo in Mt 22,34-40). Anche qui, il dato esegetico è assolutamente fondamentale per l'interpretazione. La frase finale secondo la quale l'osservanza dei due precetti riassuntivi della legge «è più grande di tutti gli olocausti e sacrifici» (Mc 12,34) è un aggiunta redazionale che non può risalire a Gesù. Solo Mc, e non Mt, specifica che i due precetti in cui tutta la legge è riassunta sono più importanti (perissoteron) di tutti gli olocausti e le immolazioni. Si badi bene, questa frase non sostiene una sostituzione dei sacrifici da parte del doppio precetto, bensì una subordinazione di importanza. Marco sa che Gesù non era contrario ai sacrifici. Egli si trova in una situazione in cui la chiesa post-gesuana ha un atteggiamento di rifiuto o di critica di questa prassi religiosa e vorrebbe trovare in Gesù qualche aggancio alla nuova prassi e alla nuova teoria. La soluzione trovata è di mettere in bocca non a Gesù, ma ad uno scriba, una frase, che Gesù approva, che sostiene che l'osservanza dei due precetti è molto meglio della pratica sacrificale. Anche questo testo, perciò, ci trasmette il medesimo quadro: i sacrifici non sono rifiutati da Gesù. La prima chiesa successiva alla morte di Gesù sembra testimoniare tendenze contraddittorie e diversificate circa la prassi sacrificale del Tempio. Accanto ad un rifiuto come quello di Stefano abbiamo la comunità di Gerusalemme che, secondo gli Atti degli Apostoli, raccomanda a Paolo di compiere un rito connesso con atti sacrificali (Atti 21,23-26). L'ambiente dei seguaci di Gesù riflesso da Matteo accetta la prassi sacrificale del Tempio e la coniuga con la concezione e la prassi di remissione dei peccati indicata da Gesù. Solo verso la fine del secolo troviamo il radicale rifiuto del culto sacrificale in Gv 4,21-24. Ma è molto interessante notare che anche nel passo giovanneo l'affermazione sulla fine del culto nel Tempio è posta in bocca a Gesù come qualcosa che si sarebbe verificato solo in futuro, il che implica la consapevolezza che Gesù ai suoi tempi non avesse combattuto il culto sacrificale. Questa divaricazione di tendenze potrebbe essere giustificata da un atteggiamento di Gesù verso i sacrifici abbastanza duttile perché determinato essenzialmente dalla sua concentrazione sui modi con i quali si poteva ottenere la cancellazione di peccati volontari da parte di singoli. Questo atteggiamento di Gesù non investiva direttamente la normativa della Torah, perché in essa non erano previsti sacrifici che espiassero i peccati volontari dei singoli. Anche il capro inviato vivo nel deserto nella cerimonia di Yom ha-kippurim non era un sacrificio. Infine, il modo con cui erano vissuti i sacrifici poteva essere vario e lo stesso Yom ha-kippurim, come abbiamo visto, possedeva una espressività ricchissima che permetteva una pluralità di interpretazioni. Gesù svalutava la funzione espiatoria del digiuno e dell'auto-umiliazione corporea, come anche la necessità di una decontaminazione corporea in seguito a peccati morali. Anche queste due tendenze di Gesù potevano essere differentemente interpretate: da alcuni in modo radicale, quasi implicassero una radicale eliminazione, e da altri in modo moderato, in un modo, cioè, che permetteva di coordinare una fedeltà all'orientamento di Gesù con una fedeltà alla normale prassi delle istituzioni religiose. Soprattutto, Gesù sosteneva la necessità di un condono da parte di Dio che doveva essere imitato anche da parte degli uomini gli uni verso gli altri: la hesed.

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Mauro Pesce

CISEC Centro Interdipartimentale di Scienze delle religioni

Università di Bologna

Piazza San Giovanni in Monte 2, 40124 Bologna


(dal sito di Mauro Pesce)